TITOLO ORIGINALE: Jeanne du Barry
USCITA ITALIA: 30 agosto 2023
USCITA FRA: 16 maggio 2023
REGIA: Maïwenn
SCENEGGIATURA: Maïwenn, Teddy Lussi-Modeste, Nicolas Livecchi
CON: Maïwenn, Johnny Depp, Pierre Richard, Noémie Lvovsky, Melvil Poupaud, Pascal Greggory, India Hair
GENERE: biografico, storico, drammatico
DURATA: 113 min
Presentato fuori concorso alla 76ª edizione del Festival di Cannes
L'attrice e regista francese Maïwenn scrive e dirige, ancora una volta, sé stessa in una storia cucita su misura per lei, di cui lei e lei soltanto può e vuole essere il fulcro, il sole, il baricentro. Quella di Jeanne du Barry è, d'altronde, un po’ la sua storia. Lei è (e, conoscendo la sua biografia, non può che essere) Jeanne du Barry. E, tutto questo, lo fa al fianco di un redivivo Johnny Depp, con e grazie a cui intende lanciare una provocazione di forte anticonformismo e discordanza ai più recenti fervori femministi post-#MeToo. Il risultato è dell'impotente, blando e superficiale infotainment dalle recrudescenze letterarie, provocante solo per i motivi sbagliati.
Basta scorrere velocemente la sua carriera come attrice e (soprattutto) come regista e sceneggiatrice per comprendere quanto per Maïwenn, al secolo Maïwenn Le Besco, fare cinema ammetta sempre e comunque un’autoreferenzialità. Sia un eccesso incontenibile ed irrefutabile di vanità, dagli esiti variegati ed altalenanti. Porsi di fronte, dietro, a lato della macchina da presa significa per lei, in primis, dover venire a patti, trovare un taglio e rinegoziare le distanze e gli intervalli, in lungo e in largo, con la propria figura, la propria immagine, ma ancor di più la propria storia.
Se tutto questo non fosse già fuoriuscito in maniera decisa da tutte le sue prove registiche precedenti (incluso il più ponderato - per cause di forza maggiore, tra cui l’urgenza, importanza e delicatezza del tema trattato - Polisse), è davvero impossibile non scorgerlo e riconoscerlo a pieno nel suo sesto tentativo, Jeanne du Barry - La favorita del re.
Non solo perché si tratta di un altro film in cui Maïwenn scrive e dirige fondamentalmente sé stessa nel ruolo della protagonista di una storia cucita su misura per lei, di cui lei e lei soltanto può e vuole essere il fulcro, il sole, il baricentro. O ancora, di un altro racconto, come nel caso del già citato Polisse, dove il personaggio da lei interpretato è il metro o il portatore del senso e delle intenzioni della pellicola. Ma anche e, in particolare, in quanto quella di Jeanne du Barry è un po’ la sua storia. In quanto lei è (e, conoscendo la sua biografia, non può che essere) Jeanne du Barry.
“Nata in una famiglia 'plebea' e dalla leggenda nera (violenza, abuso, abbandono) che ha nutrito i suoi primi passi al cinema, l'autrice non ha mai smesso di 'girare' intorno alla disfunzione familiare e al regolamento artistico dei conti” scrive bene Marzia Gandolfi nella sua recensione della pellicola, la quale assume pertanto interessanti, ma in fin dei conti del tutto accessori ed opzionali contorni da autofiction che non dicono o rivelano molto altro rispetto a quello che, per l’appunto, è riassunto in quelle pochissime righe.
Allo stesso tempo, parimenti elementari e facili sono l’aderenza, la devozione e il richiamo che, con questo suo ultimo lavoro, l’attrice e regista mostra nei confronti dell’idea di anticonformismo che la figura della contessa Du Barry ha sempre incarnato. Un anticonformismo che si muove in bilico e in leggero equilibrio tra l’ipocrisia e l'arguzia, che abbraccia e asseconda quello verso cui dovrebbe provare rigetto per modificarlo profondamente ed imprevedibilmente dall’interno.
Cosa che la favorita del re fece, come ci viene ricordato qui, con gli usi, i costumi, i rituali e le maniere affettate, servili e ruffiane della corte di Francia durante il regno di Luigi XV; e da cui mutua la lezione, appunto, la stessa Maïwenn, abbracciando in un certo senso i fervori del nuovo femminismo, quello post-#MeToo, nel racconto libero ed emancipato di una figura storica modernissima, di una donna precorritrice, molto più avanti rispetto al suo tempo, ma ingaggiando e scegliendo come co-star Johnny Depp, ovvero una delle personalità più biasimate da questo stesso movimento, verso cui, in questo modo, ella lancia una provocazione magari non proprio immediata, ma del tutto inconfondibile.
Al di là di questo, non c’è davvero nient’altro di realmente interessante, nulla di più che rimandi e che ci permetta di riconoscere la maternità dell’opera ad uno sguardo ed un approccio autoriale.
C’è solamente una Versailles che si rifà, ma mitiga gli eccessi pop-rock, decisamente più anarchici e risoluti, del Marie Antoinette di Sofia Coppola (dove appariva già il personaggio di Jeanne du Barry, interpretato da Asia Argento). Allo stesso tempo però, il tutto pare più un omaggio voluto, ma non certo raffinatissimo al Barry Lyndon di Stanley Kubrick, specie nei primissimi minuti, durante i quali una voce narrante ci introduce sia all’estetica e al formulario fiabesco e favolistico dell’intreccio, sia ad un Settecento illuminista ed illuminato perlopiù naturalmente, impresso su una pellicola granulosa e coerentemente sensuale, che manifesta e lascia già intravedere le crepe della decadenza ed effettiva messa a morte dei vecchi sistemi che accompagnerà i primi moti rivoluzionari.
Questa voce ci parla però soprattutto del carattere e riassume i primi anni di vita di questa figlia illegittima di un cuoco e di una cameriera, idealmente destinata a vivere tutta la propria vita all’ombra del popolino, come una ragazza qualunque, la quale, al contrario, utilizza le proprie qualità innate, gli strumenti del fascino e della seduzione, per scampare ad un destino che le pareva e pareva a tutti inevitabile e raggiungere così, seppur a caro prezzo, posizioni sociali ragguardevoli ed agiate.
E poi arriva la chiamata del re, che, colpito da non si sa bene cosa (e la pellicola non si premura certo dal farcelo quantomeno intuire), vuole che lei diventi una delle sue cortigiane, poi la sua favorita, come ben anticipa il sottotitolo italiano.
Inizia così un film che, come spesso accade con le regie di Maïwenn, vorrebbe essere ed è realmente tante cose a servizio di un copione e di un’idea magari intrattenente, ma non di grande profondità e spessore. Nel caso di Jeanne du Barry, da un lato, abbiamo un Il diavolo veste Prada, solo ad ambientazione storica, tra specchi, saloni, vestiti sfarzosissimi e malattie effettisticamente poco convincenti, tutto incentrato sulla capacità della contessa-self-made, dietro iniziazione ed addestramento del primo valletto di camera Jean-Benjamin de La Borde (un delizioso Benjamin Lavernhe), di sedurre il sovrano e di far sì di mantenerla, questa seduzione; di fare in modo che egli non si risvegli da questo improvvido e qui davvero incomprensibile incanto ed infatuazione per lei. Dall’altro lato, c’è invece una satira, vicinissima alla storpiatura e alla parodia, dalle soluzioni ridondanti e limitate, delle usanze, dell’etichetta, del patto sociale, della scala gerarchica e del cerimoniale che vige, alla stregua di un voto o di sacramento, tra gli sterminati confini di Versailles.
Ciò detto, entrambe queste vie intraprese ed ammesse dalla sceneggiatura estremamente pigra e semplicistica, co-scritta dalla stessa cineasta insieme a Teddy Lussi-Modeste e Nicolas Livecchi, non sono abbastanza incisive da arrestare la totale deriva melò dell'intreccio, a metà fra la favol(in)a (ci sono anche le sorelle cattive di Cenerentola), il feuilleton, la soap-opera, se non proprio il fotoromanzo, che coglie e contraddistingue la pellicola dal momento in cui la nostra Jeanne - fin troppo passiva agli eventi per stimolare l'empatia dello spettatore - varca la soglia della galleria degli specchi.
Un fotoromanzo da più di venti milioni di euro, che fonda l'integrità delle proprie (risicate) ambizioni sul senso non più tanto della meraviglia, quanto piuttosto della sopravvivenza e della conservazione. Di una simile idea di piccolo, grande racconto storico (dove la Storia è sottintesa, per non dire del tutto assente, un po’ per volontà, un po’ per inidoneità di sguardo). Dello stardom di uno degli ultimi grandi divi e di uno dei più riconoscibili volti della storia di Hollywood, che ci mette il carisma e la faccia in tutto e per tutto, così come una recitazione in un certo senso inedita: di sguardi, di silenzi, di sottrazione; per certificare un film fagocitato da una storia ben più attuale ed intrigante, solo extra-filmica. Delle convinzioni e dei trinceramenti anacronistici di un certo cinema, che si priva delle potenziali e naturali fortune del formato televisivo per rincorrere un qualcosa di altisonante ed imponente, ma finisce per dar vita a dell’impotente, blando e superficiale infotainment dalle recrudescenze letterarie, quando non addirittura didattiche (il finale “narrato” è la ciliegina di un mix puerilmente didascalico già in alcune scelte di montaggio), provocante per i motivi sbagliati.
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