TITOLO ORIGINALE: Where the Crawdads Sing
USCITA ITALIA: 13 ottobre 2022
USCITA USA: 15 luglio 2022
REGIA: Olivia Newman
SCENEGGIATURA: Lucy Alibar
GENERE: drammatico, thriller
La regista Olivia Newman e la produttrice Reese Witherspoon adattano per il grande schermo il bestseller di Delia Owens, Where the Crawdads Sing. La ragazza della palude si propone quale felice matrimonio tra melodramma sentimentale e giallo per un racconto su una femminilità libera, sicura di sé e della proprie abilità, perspicace, precorritrice per certi versi, che resiste e non rinuncia a quello che crede essere meglio per lei e per la sua vita, nonostante la cattiveria, il bigottismo, i pettegolezzi, la malignità e le accuse della malignità da parte della società cosiddetta civile. Purtroppo le buone intenzioni del progetto si scontrano con un impianto filmico e drammaturgico controllato, pudico, vergognoso, inoffensivo, intirizzito da una costruzione patetica eufemisticamente classica, alla costante ricerca della lacrime facile.
Anche voi non ne potete più di film che tentano di darsi un’aria misteriosa, intrigante, pruriginosa, con titoli tipo “La ragazza del treno”, “La ragazza nella nebbia”, “La donna alla finestra”, ma che poi, all’atto pratico, non rivelano nemmeno un’unghia di questa oscurità ed ambiguità tanto anticipate? Se siete fra questi, allora è meglio che passiate oltre a La ragazza della palude, adattamento del primo romanzo di Delia Owens (poi grande caso letterario), che, malgrado in originale si intitoli in tutt’altra maniera (il titolo è quello del libro, Where the Crawdads Sing), segue comunque alla lettera lo schema tracciato poco sopra.
Ciò su cui si basa il romanzo e che, quantomeno a giudicare dal trailer, promette la trasposizione diretta da Olivia Newman e prodotta da Reese Witherspoon, è un felice matrimonio tra il melodramma sentimentale e il giallo, attraverso il racconto della vita di Kya Clarke, una giovane ragazza che abita in una palude della Carolina del Nord e che, fin da piccola, ha dovuto imparare a cavarsela da sola, a sopravvivere con la sola compagnia certa della natura, dei suoi ritmi e dei suoi equilibri immutabili.
Ella è cresciuta infatti col fantasma ed una palese sindrome dell’abbandono - prima l'ha lasciata la madre, poi i fratelli e le sorelle maggiori, a causa del carattere violento, dei modi maneschi ed aggressivi e dell’alcolismo del padre (che, per ultimo, abbandonerà la ragazzina) - e ha pian piano iniziato a coltivare una diffidenza verso tutto ciò che esula ed è oltre i confini della propria casa, del proprio habitat naturale. Una forma di risposta e di autotutela che ha sviluppato a seguito dei moti di scherno, delle chiacchiere crudeli, dell’emarginazione, delle dicerie fasulle e dei gesti discriminatori che le sono stati rivolti, per tutta la vita, dalle persone della città.
Un giorno però, Kya incontra di nuovo, dopo anni, il suo amico Tate Walker, ragazzo sensibile, tenero, angelico, figlio di un pescatore della zona, che le insegna a leggere, a scrivere e a coltivare la propria passione per il disegno naturalistico e la biologia, e di cui presto si innamora perdutamente. Tuttavia, dopo che questi la abbandona (come hanno fatto tutti gli altri) per vivere una vita migliore, andare al college ed inseguire i propri sogni - non mantenendo inoltre l’unica promessa che si erano fatti prima della partenza di quest’ultimo.
La ragazza decide quindi di iniziare a vedersi con Chase Andrews, belloccio di buona famiglia, vanitoso, pragmatico, possessivo, decisamente più rassicurante e con ambizioni più contenute del suo ex, ma anche bugiardo, ipocrita e prepotente, tant’è che Kya decide di lasciarlo (non senza qualche brutta ripercussione).
Passa poco tempo che questi viene trovato morto, ai piedi della torre antincendio che sovrasta la palude e ovviamente la prima sospettata altro non può che essere lei.
Inizia proprio con il ritrovamento del cadavere e le scarne, approssimative e proverbiali indagini della polizia, la pellicola di Olivia Newman, per poi virare verso una specie di legal drama ed infine sfruttare il misterioso omicidio per addentrarsi nel racconto, via analessi, dell’infanzia, giovinezza, finanche vecchiaia di questa ragazza, la cui storia interessa alla regista, a Witherspoon e alla sceneggiatrice Lucy Alibar nei termini di una femminilità libera, sicura di sé e della proprie abilità, perspicace, precorritrice per certi versi, che resiste e non rinuncia a quello che crede essere meglio per lei e per la sua vita, nonostante la cattiveria, il bigottismo, i pettegolezzi, la malignità e le accuse della malignità da parte della società cosiddetta civile.
Un racconto, dunque, di ribellione ed emancipazione rispetto ad un conservatorismo perbenista e ad un maschilismo tossico, sulla cui retorica non avremmo avuto nulla da ridire (poiché inserita in un sistema-Hollywood post-#MeToo) se solo fosse quest’ultima fosse stata sviluppata in maniera più audace e meno controllata, più intensa e meno pudica o vergognosa, più interessante e meno intirizzita da un impianto drammaturgico e patetico eufemisticamente classico. O se avesse anche solo valorizzato maggiormente gli ambienti, l’atmosfera, il mistero, le interpretazioni a propria disposizione, e non si fosse accontentata, per contro, della sola ricerca di una lacrima facile, specie per la prevedibilità del proprio intreccio, della scrittura, così come delle (pochissime) rivelazioni della trama più prettamente criminosa.
La ragazza della palude non ha sfumature, anzi tutto è accesissimo, limpido, inconfutabile, netto, visibile, anche l’agghiacciante (per il modo in cui viene messo in scena) twist finale. Non ha corpo, forme, sapore o ancora la complessità necessaria per appassionare davvero e per rendere davvero degno di attenzione il messaggio che vuole lanciare. Non ha sangue o sesso (quello vero), ma screzi da ricostruzioni true crime e sequenze imbarazzanti, da fascia protetta, di effluvi amorosi. Non ha ambiguità, fascino, senso del torbido o gusto per la sporcizia (nonostante la protagonista abiti in una palude).
Non ha una costruzione preziosa delle immagini, che non solo avvicinano il film ad un prodotto televisivo di bassa lega, ma che, nel loro accecante e patinato funzionalismo e nella stucchevole matrice documentaristica della propria fotografia, sono intercambiabili, inoffensive, parossistiche, agevolmente sacrificabili; e neppure una grande cura nei confronti della recitazione di una Daisy Edgar-Jones meno splendente e profonda del solito, di un Taylor John Smith bidimensionale e di un Harris Dickinson macchiettistico. I quali, a dire il vero, si limitano ad essere, ad apparire e a mostrarsi quali corpi attraenti, eppure vacui, all’interno di una confezione scintillante che recita aforismi pseudo-poetici ed - esistenziali, di evidente origine letteraria, quando non sa o ha poco da dire. Che instupidisce e riesce a rendere irritante, oltre che succube ed asservita, la figura portatrice del proprio messaggio. Che si rifugia nella prevedibilità, indolenza e languore di un melò che, purtroppo per lui, è tutto fuorché Le pagine della nostra vita, e di un triangolo amoroso mai davvero travolgente, per mascherare la propria incapacità nel mantenere i ritmi, i discorsi, la sospensione e il senso di costante inquietudine tipici del mystery, né tantomeno la dialettica del legal drama.
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