TITOLO ORIGINALE: Bardo
REGIA: Alejandro González Iñárritu
SCENEGGIATURA: Nicolas Giacobone
GENERE: commedia, drammatico
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
A sette anni di distanza da Revenant - Redivivo, il messicano Alejandro González Iñárritu torna sul grande schermo, prodotto da Netflix, con Bardo, falsa cronica de unas cuantas verdades. A partire da un lancinante senso di colpa per il proprio espatrio artistico, per il successo e per i numerosi premi vinti in America, per aver tradito insomma la sua terra natia, le sue radici e la sua storia, il regista sviluppa un film di felliniana memoria che, al di là di un cast precisissimo ed una fotografia meravigliosa, scambia il cinema per una multimilionaria seduta psicanalitica. O, al massimo, come un confortevole spazio di auto-assoluzione e -compatimento. Un film inutilmente lungo, contraddittorio, superficiale, semplicistico e retorico che non racconta assolutamente nulla del proprio autore.
Ad un certo punto, in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Antonio Capuano avverte Fabietto Schisa che “la speranza fa fare film consolatori”. Ebbene, questo passaggio deve essere sfuggito ad Alejandro González Iñárritu, probabilmente troppo impegnato nella lavorazione del suo ultimo Bardo, falsa cronica de unas cuantas verdades, film, in concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, che vede la luce del grande schermo ben sette anni dopo il suo ultimo, furbissimo favore, Revenant – Redivivo.
Sette anni durante i quali Iñárritu, evidentemente, si è guardato dentro e ha maturato un lancinante senso di colpa per il proprio espatrio artistico, per il successo e per i numerosi premi vinti con i suoi Birdman e, appunto, Revenant. Dunque, per aver tradito la sua terra natia, il Messico, le sue radici e la sua storia. Un malessere che, perfettamente in linea con lo stereotipo dell’artista tormentato, egli ha poi tentato di tradurre in questo progetto, prodotto e finanziato da Netflix e dal suo multimilionario mecenatismo autoriale, che, quantomeno stando alle sue dichiarazioni al presidente Barbera, è riuscito perfino a stravolgere il suo modo di sognare.
Nel caso ve lo steste chiedendo, sappiate che il riferimento a È stata la mano di Dio non è totalmente campato per aria, anzi, oltre alla produzione originaria di Los Gatos, Bardo condivide ben più di quanto si potrebbe sospettare con il film di Paolo Sorrentino.
Innanzitutto, entrambi i film immaginano e mettono in scena un ritorno dei loro autori alle radici della propria arte e, ca va sans dire, della propria vita, facendo uso di un palese alter ego che, nel caso di Iñárritu – e a differenza del romanzo di formazione sorrentiniano - raffigura il sé presente in tutto e per tutto: giornalista e documentarista messicano ammirato e rinomato anche negli States, Silveiro Gama è infatti naufrago in un limbo sospeso tra un mondo e l’altro, al confine tra due realtà. Egli si trova lì perché si è improvvisamente accorto di non aver più idee, ricordi, emozioni, di non essere più presente, ma preda di rimorsi, incubi, incertezze, ansie e complessi vari.
Uno fra tutti, quello dell’impostore: una delle sue più grandi colpe (autoinflitte e non) è infatti l’aver distolto lo sguardo della propria macchina da presa e l’inchiostro della propria penna dalla propria madrepatria e dal suo popolo, uno di eterni immigrati (di prima classe), di inguaribili colonizzati, che non riesce più a comprendere, intervistare, aiutare, afferrare vividamente.
Al contrario, Silveiro ha accettato e stretto la mano ai colonizzatori, agli statunitensi (non americani!), i quali non hanno fatto altro che utilizzarlo così da tenere a bada una parte della loro popolazione, repressa e calpestata dalla falange ultraconservatrice del governo (carina, a tal proposito, la satira stilizzata ed assurda degli USA e la sequenza all’aeroporto).
Unitamente a ciò – e torniamo così al confronto con È stata la mano di Dio - , tanto Sorrentino quanto Inarritu si rifanno esplicitamente al cinema di Federico Fellini per dar vita ad un’opera che recupera e si rituffa nei ricordi, nei sogni, nelle epifanie, e rimette al centro dell’inquadratura sé stessi e la propria storia, al fine di comprendere meglio il presente e il futuro del proprio cinema e togliersi di dosso questo senso quasi soffocante di incertezza, dubbio, malessere e spaesamento – che, nel messicano, è tale nel suo senso più etimologico e geografico.
Ciò detto, se il nume principale di È stata la mano di Dio è Amarcord, con le sue maschere farsesche e grottesche e l’alternarsi rigoroso di comico e drammatico, quello di Bardo è anche 8½, il modello eccellente per un certo tipo di film metacinematografico, sulle malattie e sui processi della creazione artistica (qui purtroppo banalizzato in un ripiego facile e giustificativo alle numerose giustificazioni ripetute ed inanellate nel film). Invero, ai ricordi di gioventù, ai primi pruriti sessuali, ai traumi e ai fantasmi dell’infanzia, si intrecciano, nella pellicola di Iñárritu, la testimonianza di una crisi personale, di una nevrosi da disorientamento artistico, esistenziale e patriottico; un monologo affollato di personaggi, l’incubo di un essere umano imperfetto(?) in profonda discussione con la propria terra e i propri conterranei. Ci sono pure le muse giunoniche, la sequenza in volo e il ballo!
Bardo è pertanto una pellicola che intreccia l’ispezione interiore del proprio autore, a metà tra sogno e realtà, con una riscoperta anzitutto visiva, visionaria e morfologica della storia angosciante della sua patria; di un paese in cui, come già avveniva in Amores Perros, non si fa altro che morire.
Purtroppo, nulla di queste interessanti premesse trova poi una realizzazione altrettanto gratificante nel film finito e in un racconto che sintetizza quello che sarà già nei suoi primi due segmenti.
Il primo vede infatti un uomo tentare di librarsi in volo, forse per sfuggire alla propria condizione presente, quest’ultima idealmente rappresentata da un deserto che, come sempre nelle opere messicane di Inarritu, è un non-luogo mortifero, crudele, eppure imprescindibile e decisivo. Il secondo invece mostra il parto di un bambino che rivela all’ostetrico di non voler al mondo, perché “il mondo è una merda” - tanto per citare la brillante sceneggiatura scritta dallo stesso regista, insieme a Nicolàs Giacobone - e che viene prontamente reinserito all’interno dell’utero materno. Due momenti ben diversi tra loro che poi troveranno una spiegazione oltremodo scontata durante il corso della pellicola.
Ciò nonostante, queste due sequenze da sole potrebbero già farvi intuire la profondità delle intenzioni e la natura didascalica, retorica, puerile, semplicistica e totalmente scivolosa dei sogni, dei voli allegorici, delle sentenze, degli enunciati, delle immagini di un film che proseguirà così, su questa china, immutabile, per tre, insopportabili ore di racconto.
Un cast di meravigliosi attori, tra cui primeggiano Damien Gimenez Cacho e Iker Sanchez Solano, esegue al meglio le coreografie dei lunghi piani sequenza costruiti da una fotografia di grande atmosfera - forse il comparto più curato di questa produzione multimilionaria (al contrario degli effetti visivi, che ricordano il peggior Zemeckis) - interpreta al meglio le esigenze di un regista che forse ha frainteso il cinema con una multimilionaria seduta di psicoterapia. O, al massimo, come un confortevole spazio di auto-assoluzione e -compatimento.
Da qui, da questo banale fraintendimento prende il via un film prolisso e scolasticamente kafkiano che maschera un apparato discorsivo più simile ad uno stillicidio riconciliante; la mancanza di sostanza con belle immagini ed uno sforzo tecnico-registico di per sé inconcludente, oltre che estremamente retorico. Un tour de force che vorrebbe portare alla catarsi, ma che, in realtà, lascia spazio soltanto ad uno dei risvolti e ad una delle chiuse più elementari ed imbarazzanti degli ultimi anni di cinema. Una pellicola anacronistica ed estremamente vecchia, che vorrebbe scioccare lo spettatore, ma in realtà non fa altro che annientare ogni curiosità e voglia di esplorazione della mente, di pensieri, timori e fantasmi del proprio regista.
Come non bastasse, alla base delle peripezie oniriche di Silveiro, e quindi di Iñárritu, vi è pure una grande contraddizione. Da un lato, infatti, egli, così come il protagonista, sembra ripudiare, quasi vergognarsi, di ciò che ha fatto in passato, dunque dei due film che lo hanno reso – a parere di chi scrive – uno degli abbagli più eclatanti della storia del cinema moderno (e Bardo ne è la riprova), eppure il personaggio di Silveiro è praticamente il sosia, con tanto di frustrazioni e rimpianti e finale supereroistico, del Riggan Thomson di Michael Keaton in Birdman. Inoltre, il desiderio blockbuster, qui davvero impossibile, è lo stesso alla base dell’operazione Revenant.
Detto ciò, bisogna però riconoscere che Bardo, discorde, lo è già dalle sue fondamenta creative, immaginifiche, concettuali: difatti, in tutto questo onirismo e lirismo, in questa magniloquenza visiva e spettacolare, in queste sue continue autenticazioni appassionate (dal già citato Fellini, passando per Béla Tarr, fino ad arrivare a Terrence Malick, per non parlare dei riecheggi a Morricone e Nino Rota riscontrabili nella colonna sonora, talora al limite del plagio, di Bryce Dessner e lo stesso Iñárritu), ciò che si perde, in primis, è paradossalmente l’umanità, la sensibilità e l’autenticità del racconto dello stesso Iñárritu. Quest’ultimo, talmente clemente ed indulgente nei confronti di sé stesso, da arrivare addirittura a rappresentarsi ed elevarsi a Cristo, stigmatizzato dai traumi del passato ed inchiodato sul palco del proprio malessere, del proprio lavoro, del proprio (per lui, ipocritamente immeritato) successo, della propria vita (americana). Da pensarsi e vedersi, nonostante tutto, innocente, giustificato, inconfutabile e rassicurato, compatito, vittima, vincente.
Più che una falsa cronaca di alcune verità, Bardo è un’insopportabile cronaca di una verità. Una sola, quella, neanche a dirlo, di Alejandro González Iñárritu. Ma, chi lui sia davvero, cosa provi nel profondo, al di là di questo malessere, il film non lo racconta.
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