TITOLO ORIGINALE: White Noise
REGIA: Noah Baumbach
SCENEGGIATURA: Noah Baumbach
GENERE: commedia, horror, noir, catastrofico
In concorso al festival di Venezia 2022
Colpito più volte, durante il corso della sua vita, dal seminale romanzo postmodernista di Don DeLillo, Noah Baumbach (Storie di un matrimonio) sceglie di trasporlo, forte di una grande produzione Netflix alle spalle. Film di apertura della 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, White Noise è un film imprevisto e sensazionale, uno di quelli che possono senz’altro svoltare la carriera di un artista, che lasceranno inevitabilmente il segno. E lo è, oltre che nella profonda coerenza, sostanziosità e lucidità della sceneggiatura e in una direzione sempre impeccabile degli attori, nel gioco gustosamente cinematografico a cui il regista newyorkese ci invita e tenta, adattando meravigliosamente ed attualizzando, quantomeno nelle tematiche e nei timori, il romanzo di DeLillo. È la pandemia da Covid-19, ma pure le parole quarantena, mascherine, contagi, (a)sintomatici, stato d’emergenza, ad animare, ispirare, far nascere e crescere l’esigenza di White Noise di Noah Baumbach, un testo che parla di noi e del nostro insopprimibile bisogno di ottimismo, conforto, convenzioni ed etichette entro le quali possiamo sentirci al sicuro.
“È tardi” si dice, in tono quasi sottomesso, ad un certo punto, di White Noise, l’undicesimo film di Noah Baumbach (Frances Ha, De Palma, The Meyerowitz Stories, Storia di un matrimonio), il terzo prodotto da Netflix, titolo di apertura del concorso ed insieme della 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Ma è tardi per cosa? Per vivere, per morire, per essere chi agogniamo (e non chi dobbiamo essere)? Per fare l’amore? Per dirci e sentirci dire le cose che vorremmo, come vorremmo, da chi vorremmo? Per essere qualcun altro, al di fuori di noi stessi? Un po’ tutto, com'è d'altronde la pellicola di Baumbach, che, più volte affascinato dall’omonimo romanzo di Don DeLillo [capolavoro della letteratura statunitense postmoderna, da molti ritenuto un’opera impossibile da adattare], decide di portarlo finalmente sul grande schermo. E di farlo nel momento in cui l’umanità si trova sul proverbiale bordo del precipizio.
È la pandemia da Covid-19, sono le parole quarantena, mascherine, contagi, (a)sintomatici, stato d’emergenza, ad animare, ispirare, far nascere e crescere l’esigenza di un testo che parlasse di noi e del nostro insopprimibile bisogno di ottimismo, conforto, convenzioni ed etichette entro le quali possiamo sentirci al sicuro, di idoli e demoni che traccino un illusorio confine alla nostra natura, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che si può e ciò che non si può fare.
Tutto questo è il rumore bianco del titolo, da dizionario, un particolare tipo di rumore caratterizzato dall’assenza di periodicità nel tempo e da ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze; ma figurativamente una presenza invisibile ed energetica, che attraversa tutto quello che ci circonda e ci culla tra le sue braccia. Braccia di sana illusione. Un motore appannato dal nostro vociare informe, irrazionale, inconcludente, tuttavia persistente, che si cela nelle televisioni che ci anestetizzano, che qualificano la nostra presenza; nei supermercati che visitiamo quotidianamente, contenitori di tutte le sfumature e le variabili della nostra vita; nelle medicine che prendiamo per essere rassicurati del fatto che forse, un giorno, potremmo farcela; nei sogni, nelle utopie e nelle masturbazioni mentali che rendono meno soffocante il domani. Un rimedio naturale ed innato che pallia e sopprime la nostra angoscia nei confronti della morte, di ciò che verrà poi, dell’eterna, definitiva ed inevitabile fine del nostro spettacolo. La morte della vita come la conosciamo, o come crediamo di conoscerla. Perché “dietro un incidente mortale c’è sempre dell’ottimismo”, qualcosa di positivo.
Eppure, cosa succede quando squarciamo questo velo di Maya e ci ritroviamo allo specchio con noi stessi, con la nostra definizione eccellente, con il movente della nostra vita? Cosa diventiamo quando togliamo questa benda dagli occhi e scopriamo l’entità della cospirazione che ci siamo autoimposti e a cui siamo soggetti dal momento in cui veniamo al mondo? È proprio di questo che parla il capolavoro di DeLillo, nato anch’esso in un momento di profonda delusione e disincanto per gli Stati Uniti e il mondo, prede di un consumismo rampante, di un’insopportabile saturazione mediatica, di un intellettualismo becero, di cospirazioni sotterranee - che qualcuno direbbe essere addirittura parte integrante del vivere americano -, di continue disintegrazioni e reintegrazioni del nucleo familiare, di un maschilismo imperante, e di una paranoia e diffidenza dilaganti.
Il tutto, visto attraverso gli occhi dei Gladney, una (all’apparenza) normalissima famiglia borghese e di sobborgo del Midwest, prodotto artificiale ed artificioso dei rispettivi e molteplici matrimoni di Jack – stimato ed orgoglioso professore universitario, conosciuto per aver inaugurato un’intera branca di studi a Hitler (questo, nonostante egli non conosca una parola di tedesco) – e di Babette, insegnante di yoga che forse nasconde un segreto che potrebbe venire a galla e compromettere la stabilità del suo legame matrimoniale. Il momento della rivelazione è soltanto rimandato dall'arrivo di una misteriosa nube tossica che sembra espandersi incessantemente sulle loro teste…
La prima cosa che salta subito all’occhio durante la visione di White Noise è la profonda conoscenza e devozione che Baumbach – qui al suo primo approccio con la scrittura di una sceneggiatura non originale - dimostra nei confronti del romanzo originale. Vedendo infatti la sua sceneggiatura prendere vita, si ha come la sensazione che egli abbia scandagliato così tanto in profondità le pagine di questo capolavoro, da farne una creatura all’apparenza tutta sua - neanche a dirlo, White Noise, perlomeno per chi scrive, è un esempio virtuoso di adattamento cinematografico.
Difatti, a differenza di buona parte dei suoi colleghi, il cineasta riesce a rintracciare nel romanzo qualcosa, un concetto, una sensazione, che poi traduce (veramente) e riutilizza per dar vita ad un testo che, malgrado provenga da un’intuizione di quasi quarant’anni fa, si mostra più presente ed attuale che mai. Ad un film che trasporta al giorno d’oggi le inquietudini nei confronti di un mondo incerto, sfuggente, preda della disinformazione più selvaggia, del sensazionalismo più mediocre, e di immarcescibili moti di speranza. Ed è forse questo il motivo per cui è stato scelto ad apertura di un’edizione del festival di Venezia che, riprendendo le parole del presidente Barbera, vuole richiamarci a gran voce (e ad occhi spalancati) alla realtà.
White Noise è dunque un film imprevisto e sensazionale, uno di quelli che possono senz’altro svoltare la carriera di un artista, che lasceranno inevitabilmente il segno. E lo è, nella profonda coerenza, sostanziosità e lucidità della sceneggiatura, in una tematica comune (quantomeno nell’ultimo periodo) ma trattata con grandissima personalità, in una direzione sempre impeccabile degli attori (tra cui risplendono inevitabilmente un Adam Driver pasciuto ed imbolsito che riscopre un lato più comico della propria immagine e del proprio corpo inconsueto, ed una Greta Gerwig affascinantissima e stralunata, a cui si affiancano una strepitosa e giovanissima Raffey Cassidy e un Don Cheadle quasi luciferino), ma anche e soprattutto nel gioco gustosamente cinematografico a cui il regista newyorkese ci invita e tenta.
Una cosa è certa: non avete mai visto un Baumbach così (spielberghiano). Infatti, pur riprendendo le lezioni dei film precedenti - specie di Storia di un matrimonio nel modo in cui scrive e mette in scena il rapporto di coppia (parole, corpi e spazi diventano un tutt’uno liberatorio e distruttivo, che mette in luce la nostra mediocrità) - egli, in profonda connivenza ed unione con il mondo schizofrenico, labile, bizzarro ed imprevedibile che racconta; cadenza, tratteggia, colora, intinge, rilegge il libro di DeLillo tanto nell’immaginario anni ’80 (quello a cui sono saldamente legati la storia e il discorso originari, motivo per cui alcuni parallelismi con Stranger Things, quantomeno effettisticamente, non sono poi così casuali), quanto nei generi. Cosa che fa di White Noise un esaltante, fortunato, dinamico mélange di commedia grottesca, family movie anni ’80/’90, catastrofico, horror/thriller onirico, finanche noir e musical.
Quest’ultimo, propugnatore eccellente, quantomeno nella sua accezione classica, dei valori, nonché rappresentazione iconica dei sogni statunitensi. O, in questo caso specifico, creatore di uno spettacolo artificioso e coreografato, apoteosi estatica e suadente dell’illusione capitalista e consumistica; cartolina di un grande film sulla suggestione, sulla rilettura artistica dei traumi e dei timori del presente. Di un film, non esente da ridondanze e momenti meno riusciti, che, ai nostri “andrà tutto bene”, al nostro essere animali positivisti, assuefatti dalla pillola "speranza", dagli effetti palliativi e dalle numerose controindicazioni, risponde “è tardi”.
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