TITOLO ORIGINALE: Gold
USCITA ITALIA: 30 giugno 2022
USCITA USA: 13 gennaio 2022
REGIA: Anthony Hayes
SCENEGGIATURA: Anthony Hayes, Polly Smyth
GENERE: thriller
Un Zac Efron impegnato in un’interpretazione che è più una dimostrazione masochista, un tour de force umiliante, una prova al limite della pornografia espressiva, prostetica e fisiologica, è protagonista di Gold, il survival thriller scritto, diretto ed interpretato da Anthony Hayes. La primissima sequenza, che pare una versione ridotta e sintetica del magnifico quarto d’ora iniziale di C’era una volta il West di Sergio Leone, e l’ottima fotografia di Ross Giardina, che, con il suo taglio desaturatissimo e il tocco polveroso e consumato, filma l’outback australiano rendendolo quasi un pianeta alieno sono gli unici due elementi preziosi di un racconto stanco e arido, che prosciuga l'immaginario fino a renderlo cibo per avvoltoi.
Fate il titolo di un qualsiasi film apocalittico o pseudo tale che avete visto negli ultimi venti, trenta, quarant’anni, e, con molta probabilità, lo ritroverete in Gold, il film scritto, diretto ed interpretato da Anthony Hayes. Iniziamo noi. Interceptor, meglio conosciuto come Mad Max, di George Miller? Sì. The Road di John Hillcoat? Sì. The Rover di David Michôd (con, tra l’altro, lo stesso Hayes nel cast)? Certo che sì.
Ma usciamo dai futuri in rovina più o meno prossimo e prendiamo in causa, per esempio, Mine di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, Revenant di Iñárritu, 127 ore di Danny Boyle, Cast Away di Robert Zemeckis, Wild di Jean-Marc Vallée. Tutti titoli che, nel bene e nel male, riecheggiano tra le pieghe del mondo immaginato e della vicenda organizzata da Hayes e Polly Smyth in modo estremamente lineare, pur con qualche minima sorpresa sul finale.
Sì, perché Gold è un film che dura pochissimo (neanche un’ora e trenta), ma che avrebbe giovato di qualche taglio aggiuntivo, sia per ciò che propone, sia per la stanchezza con cui lo mette in scena, impagina e scompagina. Ed è davvero un peccato che, superata la metà, l’intreccio e le sorti del vagabondo senza nome, interpretato da un Zac Efron impegnato, così come DiCaprio, James Franco e Tom Hanks prima di lui, in un’interpretazione che è più una dimostrazione masochista, un tour de force umiliante, una prova al limite della pornografia espressiva, prostetica e fisiologica, diventino sempre più esigue, quasi irrilevanti.
D’altronde, cosa attendersi da un soggetto: un uomo, “da qualche parte, in qualche momento, non troppo lontano da adesso”, viene posto a guardia di una gigantesca pepita d’oro nel bel mezzo di un deserto arido ed insidioso, in attesa dell’arrivo del compagno con i mezzi e gli attrezzi necessari per dissotterrare tale tesoro; che, oltre a mischiare il campionario survivalista da Uomo vs. Natura (dunque, predatori feroci in circolazione, insetti velenosi, scorse che scarseggiano e da razionare, tempeste di sabbia, allucinazioni, ferite da auto medicare, il lento ed inesorabile passare del tempo), parla sostanzialmente dell’avidità umana e, per farlo, utilizza alcune delle metafore più scolastiche e rudimentali a cui avrete il piacere di assistere.
Da un lato, abbiamo quindi l’uomo, disposto a mettere a repentaglio la propria vita e quella degli altri per mera cupidigia, per ottenere sempre di più, non accontentandosi di ciò che ha. Dall’altro, abbiamo invece il pianeta Terra, o meglio, Madre Natura, rappresentata idealmente dal personaggio di Susie Porter, che, all’inizio, gli tenta di essere amichevole, dandogli pure qualche dritta, per poi essere brutalmente uccisa e cannibalizzata (fino a che non si prende la sua rivincita).
E - ripetiamo - è davvero un peccato che alla fine Gold sia solo(!) questo, perché i suoi primi venti minuti sono costellati da piccoli elementi che elevano vertiginosamente l’asticella e le prospettive dei restanti settanta.
Tra queste minime, ma ricchissime componenti, è bene citare la primissima sequenza, che pare una versione ridotta e sintetica del magnifico quarto d’ora iniziale di C'era una volta il West di Sergio Leone, con l’arrivo via treno dello straniero senza nome, dallo sguardo affranto, la voce rotta e il passo sghembo, e la narrazione affidata ai rumori ambientali: lo sbuffare della locomotiva, il cigolare dei freni, lo sferragliare delle rotaie e, una volta scesi, il vento che soffia contro qualche ferraglia, il suono di un film in TV, l’abbaiare di un cane in lontananza.
Ma anche l’ottima fotografia di Ross Giardina, che, con il suo taglio desaturatissimo e il tocco polveroso e consumato, filma l’outback australiano rendendolo quasi un pianeta alieno - cosa che la pone pressoché in antitesi con la precisazione “non troppo lontano da adesso” dell’inizio.
Un pianeta talmente desertico che - pure per risanare la pochezza discorsiva dimostrata dal testo di Hayes e Smyth - ci piace immaginarlo quale perfetta rappresentazione dell’immaginario contemporaneo. Spremuto fino all’osso, fino a che non ne rimane un corpo scheletrico, scarno, smunto ed emaciato, preda perfetta per coyote o avvoltoi delle sabbie.
Durante i titoli di coda, Nick Cave canta People Ain't No Good. Ma, forse forse, sarebbe stata più indicata Nothing Left (to Lose) di Alan Parsons. You should turn away 'cause there's nothing more to say.
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