TITOLO ORIGINALE: Nobody
USCITA ITALIA: 1 luglio 2021
USCITA USA: 26 marzo 2021
REGIA: Ilya Naishuller
SCENEGGIATURA: Derek Kolstad
GENERE: azione, drammatico
Dopo aver subito una rapina e aver deluso la propria famiglia, un ex operativo della CIA frustrato e annoiato da una vita fin troppo ordinaria decide di abbracciare il richiamo dell’azione, della violenza e del piacere e divertimento che da esse ne traeva.
Da David Leitch, mente dietro John Wick e regista di Atomica Bionda e Deadpool 2, prende vita Io sono nessuno, la seconda regia del russo Ilya Naishuller, che, dopo aver depredato e riproposto i principi caratteristici e caratterizzanti il medium videoludico nello sperimentale, ma indubbiamente castrato Hardocore!; torna a cimentarsi con l'action. Un improbabile, espressivo e carismatico Bob Odenkirk interpreta Hutch Mansell, un uomo insoddisfatto che vive le sue giornate all’insegna della ripetitività, dell’incomunicabilità e dell’alienazione e che, solo dopo aver riabbracciato la vita che riconosce(va), capisce che vorrebbe solo (soprav)vivere in un mondo ordinario. Una messa in scena lucida e sobria, utile a valorizzare le interpretazioni di un cast azzeccato ed implausibile, una fotografia puntuale e accorta nel trarre il meglio dalle ingegnose coreografie, contraddistinta da una evidente ossessione per gli oggetti e il dettaglio, un montaggio eclettico ed inaspettato ed una colonna sonora che bene sottolinea il tono farsesco e ludico dell’opera sono gli elementi più riusciti di un action movie, che è, in realtà, una seduta psicoanalitica del maschio americano medio e una perversione eccessiva ed esasperata degli stereotipi del genere (e di genere) e delle sue nevrosi.
Where is the life that I recognize? (Gone away)/But I won't cry for yesterday/There's an ordinary world/Somehow I have to find/And as I try to make my way/To the ordinary world/I will learn to survive
Così cantavano i Duran Duran nei primi anni ‘90 in uno dei loro più grandi successi, di cui noi ora “rubiamo” (anche un po’ pretestuosamente, lo ammettiamo) alcuni versi per introdurre ciò di cui andremo a trattare nelle righe che seguono. Lasciamo stare quindi tutte le implicazioni, i sotto testi, le varie interpretazioni e i retroscena del brano, prendiamo quella manciata di parole per ciò che sono e significano e ricaviamo così uno dei temi principali attorno a cui si imperniano premesse, sviluppi ed esiti di (“Chi cazzo sei tu?”) Io sono nessuno.
No, non il film di Valerii, ma la seconda regia del russo Ilya Naishuller, che, dopo aver depredato e riproposto l'estetica, la struttura e i principi caratteristici e caratterizzanti il medium e il mondo videoludico nello sperimentale, singolare, interessante, ma indubbiamente castrato Hardocore!; torna a cimentarsi con il genere action.
Stavolta però, questo suo gioco con il filone, oltre ad avvenire su un livello e ad un'intensità del tutto differenti, è sostenuto da una produzione che sfoggia nomi quali David Leitch (tra le menti dietro il primo John Wick, nonché regista di Atomica Bionda, Deadpool 2 e Hobbs & Shaw: uno che l’action lo fa e lo conosce più che bene), Tobey Maguire ed un Bob Odenkirk ancora reduce dal successo di Breaking Bad (e annesso spin-off) e legato alla sfera di popolarità e al carisma anti-eroico del personaggio di Saul Goodman, che, in (e per) Io sono nessuno, è anche (e soprattutto) attore protagonista e volto commercialmente emblematico e “acchiappante”.
E’ quindi proprio Odenkirk colui che, come cantavano i Duran Duran, si chiede prima dove sia la vita che riconosce(va) e che, solo dopo averla riabbracciata un’ultima(?) volta, capisce che vorrebbe solo (soprav)vivere in un mondo ordinario.
Io sono nessuno è Odenkirk e Odenkirk è Nessuno aka Hutch Mansell, una persona che i più potrebbero scambiare per il classico americano medio-borghese, tutto lavoro e famiglia. Un uomo insoddisfatto che vive le sue giornate all’insegna della ripetitività, dell’incomunicabilità e dell’alienazione. Un docile agnellino che non farebbe male ad una mosca. Nulla di più sbagliato. Hutch Mansell è infatti uno di quei “classici” lupi vestiti da agnelli: prima di quella vita ordinaria (da cui vorrà inizialmente fuggire, ma che infine agognerà), il nostro era un revisore della CIA, una di quelle persone che “nessuno vorrebbe mai avere alla porta di casa”, un killer freddo, spietato e calcolatore che ha fatto dell’omicidio e della morte le voci del proprio curriculum.
Un passato che - chi l’avrebbe mai detto - bussa ben presto alla porta di un Hutch che tenta e ha tentato in tutti i modi di adeguarsi a questa nuova quotidianità, ma che sente inguaribilmente il richiamo dell’azione, della violenza e del piacere e divertimento che, a quanto pare, da esse ne traeva (e ne trae tuttora, a vedere da come pesta).
Bastano infatti un tentativo di furto in casa sua da parte di una coppia di rapinatori - durante il quale Hutch decide inconsapevolmente (o forse no?) di non reagire, deludendo familiari, conoscenti e non solo, ed alimentando una frustrazione che già arde in lui da molto tempo - e il conseguente tentativo di recupero del “braccialetto con il gattino” della figlia, per sopprimere Hutch Mansell - il borghese insoddisfatto e debole - e assistere all’ascesa, tra sangue, sparatorie e accoltellamenti, di Nessuno. Il che lo porterà ad una completa presa di coscienza rispetto al tipo di vita che potrebbe e vorrebbe avere.
E’ quindi a partire da un elemento comico e ridicolo (il braccialetto) che decolla veramente il racconto (a metà tra John Wick e Un giorno di ordinaria follia) di Io sono nessuno e il suo parziale gioco di parodia della figura dell’eroe d'azione, di rovesciamento delle aspettative e degli assiomi tipici di quella branca dell’action che punta tutto sullo spettacolo di coreografie, combattimenti corpo a corpo e sparatorie dalla violenza grafica, cruda, viscerale, ma indubbiamente realistica; e, pertanto, di esasperazione ed esagerazione di tutte quelle dinamiche, di quella precisione e di quei tecnicismi che hanno fatto di film come il già citato John Wick dei piccoli cult.
Ciò nonostante, prima di iniziare a slogare braccia, pestare peggio di un fabbro e infilare cannucce nelle trachee, Io sono nessuno gode di una quindicina di minuti in cui Naishuller predilige il visuale e il visivo ad una narrazione didascalica e proverbiale, dimostrando tutta la sua abilità nell’utilizzo delle specificità del mezzo e del linguaggio cinematografico .
Ad una consueta e (questa sì che è) proverbiale prolessi, segue infatti una prova di montaggio che ricorda - alla lontana e in maniera ben più elementare - la teoria eisensteiniana e che, in tal senso, sfrutta l’incessante e progressivamente incalzante ripetizione delle stesse sei/sette situazioni [la moglie che lo rimprovera, la corsa del lunedì, l’attesa dell’autobus] che compongono la giornata e, insieme, la settimana di Nessuno, per esternare ed esprimere, nella maniera più immediata ed istintiva possibile, il senso di alienazione, insuccesso e disagio e la generale mediocrità che ne insidiano l’esistenza.
Inoltre, pur raccontando la vita di Hutch prima della sua riconversione alla violenza e declino (che è anche una rinascita) impetuoso, questo quarto d’ora iniziale è forse il frammento più fresco, particolare, sorprendente e spassoso di Io sono nessuno, che, consapevole tanto dei propri limiti quanto dell’attesa e dei desideri del pubblico, muore invece dalla voglia di buttare Bob Odenkirk nella mischia. E con questo non vogliamo assolutamente dire che quanto segue (a quei quindici minuti) sia da buttare, anzi...
Tuttavia, non facciamo che chiederci cosa sarebbe uscito se invece di imboccare la strada dell’action alla John Wick (seppur esagerato), la pellicola avesse mantenuto il tiro e le dinamiche di quell’incipit. Forse sarebbe uscito un qualcosa di integralmente inedito ed intellettualmente stimolante. Forse no. Purtroppo o per fortuna - non lo sapremo mai.
Chiusa dunque questa lunga, ma doverosa parentesi, com’è “quanto segue”? Come si sviluppa l’evasione di Hutch dai limiti di una vita da americano medio? Esattamente come ci si aspetterebbe.
Difatti, seppur prevedibile (ma, del resto, si sa, tutto e “tutti lo sono”) e convenzionale in molti suoi risvolti, così come nella strutturazione dell’intreccio e in alcune linee di dialogo (peccato); la sceneggiatura di Derek Kolstad - evidentemente la penna di tutti e tre i John Wick - fa coppia e stringe un legame di reciproca influenza con la regia di Naishuller, imbastendo un racconto che conosce il valore di misura ed equilibrio, che agisce e decide sempre che strada percorrere secondo un motivo ed un fine ben precisi, che si mostra compatto e coeso nella sua narrazione e semantica, e che, per di più, non nasconde mai (in fin dei conti, perché dovrebbe?) gli strumenti e i meccanismi che adopera e di cui si avvale per intrattenere, divertire, entusiasmare e rendersi memorabile agli occhi dello spettatore.
Dispositivi come, ad esempio, una messa in scena senza fronzoli, lucida e sobria anche nei momenti più concitati, utile a valorizzare l’interpretazione e, soprattutto, l’espressività immediata di Odenkirk - la cui improbabilità come action hero si converte nell’elemento che ne determina (e determinerà, sul lungo periodo) il carisma e il successo -, un azzeccato cast di comprimari (tra cui figura un altrettanto improbabile Christopher Lloyd nel ruolo di Mansell senior), una fotografia puntuale e accorta nel trarre il meglio dalle ingegnose coreografie e contraddistinta, a sua volta, da una evidente e coerente ossessione per gli oggetti (di morte e non) e il dettaglio graziosamente mortale; ed una colonna sonora composta da un mix di brani soul, jazz e funky principalmente anni ‘60, finalizzata, come da tradizione, ad attenuare la tensione e la crudeltà di quanto rappresentato e a sottolineare dunque il tono farsesco e ludico dell’opera.
La spirale di violenza di Hutch (nata prima da una delusione delle aspettative sociali, poi da un braccialetto ed infine da prospetti di vendetta traditi) lo porterà a scontrarsi con nientepopodimeno che la mafia russa (che, gira che ti rigira, in film del genere è sempre presente e colpevole), capeggiata, manco a farlo apposta, da tale Yulian Kuznetsov (un Aleksey Serebryakov col giusto fisic du role): una versione parodica e caricaturale del tipico capomafia, un uomo che ha molto più in comune con Hutch di quanto si possa immaginare, stufo di fare il criminale (preferirebbe infatti cantare e ballare tutta sera nel suo club), tuttavia costretto ad esserlo dalle e per le esigenze di un’istanza narrante invasiva e dispotica.
In tal senso, Io sono nessuno assume quindi un’intrigantissima valenza metacinematografica, giacché mette in scena lo scontro tra due uomini di mezza età stanchi ed esauriti, a cui viene imposto di abbracciare la via della violenza non tanto per una ragione logica e comprensibile (ecco spiegata la casualità del raptus omicida di Nessuno sul bus), quanto piuttosto per fini affabulatori e narrativi, per compiacere un pubblico e per soddisfare le richieste di una sceneggiatura che gioca con l’action appunto attraverso personaggi estremamente atipici ed inverosimili, i quali diventano e vengono mostrati palesemente in quanto strumenti e marionette.
E’ proprio per questo preciso motivo che, una volta terminata la visione del film di Naishuller, si ha quasi la sensazione di aver appena assistito ad una seduta psicoanalitica del maschio americano medio, ad una perversione “un tantino eccessiva, ma gloriosa” degli stereotipi del genere (e di genere) e delle sue nevrosi e contemporaneamente all’ascesa di una nuova icona action. Di un signor nessuno che, a conti fatti, potrebbe essere chiunque di noi (i suoi drammi sono quanto di più normale e diffuso) e che, in futuro, potrà aspirare ad essere qualcuno sul e per il grande schermo.
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