TITOLO ORIGINALE: The Old Oak
USCITA ITALIA: 16 novembre 2023
REGIA: Ken Loach
SCENEGGIATURA: Paul Laverty
CON: Dave Turner, Ebla Mari, Debbie Honeywood, Reuben Bainbridge
GENERE: drammatico
DURATA: 113 min
Presentato in concorso al 76° Festival di Cannes
Ken Loach torna sul grande schermo con quello che, per sua stessa ammissione, potrebbe essere il suo ultimo film. The Old Oak è un racconto in cui il regista britannico ritrova categorie sociali, volti, storie che ha già sfiorato ed inquadrato negli anni. Solo che questa volta non rimane più molto tempo per lottare. La visione che egli ha sempre voluto veder compiersi nella realtà è allora possibile, attuabile, immaginabile solo ed esclusivamente sul grande schermo.
È con una serie di fotografie (in bianco e nero) che Ken Loach sceglie di inaugurare The Old Oak, il suo 27° lungometraggio e con tutta probabilità - per sua stessa ammissione e per ovvi motivi anagrafici - anche l’ultimo della sua lunga ed appassionata carriera, iniziata a fine anni ‘60 con Poor Cow e Kes e splendidamente consacratasi in questi ultimi anni con Il vento accarezza l’erba, La parte degli angeli, Io, Daniel Blake e il più recente Sorry We Missed You. Delle fotografie, dicevamo, scattate da Yara, una ragazza siriana appena giunta, insieme a sua madre e ai suoi fratelli e sorelle (di sangue e di patria), in una piccola cittadina mineraria vicino al mare, ormai decadente, spenta, atrofizzata, nel nord dell’Inghilterra, verosimilmente nella contea di Durham. Delle fotografie che rimandano ad un fatto realmente accaduto nel 2016 proprio in una simile comunità, preso a soggetto, come punto di partenza dal sodale (di Loach) sceneggiatore Paul Laverty. L’arrivo di un autobus di rifugiati mediorientali diventa invero il pretesto per un atto di violenza, discriminazione, razzismo, intolleranza crudele ed assolutamente gratuito (ne esiste poi uno che non lo sia?), che viene immortalato proprio dall’obiettivo della macchina fotografica della nostra Yara. Impresso nella sua memoria digitale - ricettacolo della tecnica e della meccanica fredda ed apatica - per non essere invece mai dimenticato da chi, come lei, quei ricordi divenuti immagine, li ha vissuti. Ma pure da coloro che, come noi, a quelle istantanee danno un significato, aggiungono un contesto, intentano una qualche forma di spiegazione più o meno plausibile.
È la separazione, soprattutto, ciò che emerge e suscita la cristallizzazione fotografica di questo momento (nel puro senso di passaggio da uno stato momentaneo ed evanescente, ad uno materico, solido e quindi potenzialmente perpetuo, resistente, indelebile) - che l’istanza narrante amplia, dilata e completa facendocelo ascoltare o, meglio, auscultare. Separazione, espressa ed insita di per sé nel medium attraverso cui essa rivive di fronte a chi guarda e nel modo in cui Loach mette in scena questa carrellata di immagini. L’unicità temporale e la parzialità del fatto e dell’atto fotografico rendono perciò molto bene la disgiunzione, il distacco dell’ambiente sociale in cui poi si andrà ad inserire la pellicola. In altre parole, l’isolamento (del momento fotografato) diventa traslitterazione dell’isolamento segregazionista a cui sono sottoposti gli immigrati siriani sin dal loro arrivo in comunità. Allo stesso tempo, la soluzione compositiva e sonora di Loach non fa che amplificare ulteriormente questa specificità del mezzo fotografico (qui inesorabile e disumana) e lo stesso fa anche il filtro, la barriera, più concretamente il finestrino di un autobus, che la fotografa antepone al proprio occhio meccanico.
Non è quindi un caso se The Old Oak termina poi con le immagini, non più statiche ma in movimento(!), di un evento del tutto antitetico a quello iniziale, ovvero di una parata in cui il tentativo di integrazione, forza e solidarietà che alcuni membri della comunità sono andati cercando insieme ai neoarrivati durante il racconto diventa finalmente realtà. Realtà filmica, s’intende: il bianco e nero su cui virano le immagini ci riporta subito alla dimensione dei primissimi minuti, ma il cambiamento sostanziale che sembra aver scosso la cittadina viene sottolineato da un cambio nella modalità di rappresentazione e nel medium di espressione.
Laddove allora la fotografia spezza, divide, rende la separazione, il cinema e il suo fluido, vorticoso, vitale dinamismo uniscono e rendono alla perfezione lo sviluppo, o forse il sogno, di un sentire finalmente di condivisione ed integrazione parimenti vitale. Un sogno utopico poiché, come dice Yara a proposito del fotografare, puntare l’obiettivo verso una porzione di mondo comporta fare una scelta ben precisa su ciò che del mondo si vuole e vorrebbe vedere.
Fare foto equivale a sopravvivere, serve a sopportare il dolore della realtà, ma significa anche alimentare (in sé e in chi, quello scatto, lo guarderà) una speranza, che è possibile intravedere in filigrana anche nella situazione più meschina e riprovevole. Vedere e farci vedere il mondo come dovrebbe essere. Tuttavia, la speranza oggi non può che essere un sentimento “osceno”, sempre per citare la ragazza siriana. Un qualcosa di ingenuo, di illusorio, di poco perspicace, di quasi masochistico, visto il destino annichilente, autodistruttivo, ugualmente osceno verso cui ogni giorno procede e si incammina a gran passi il mondo, eppure comunque umano e(rgo) inevitabile.
Lo stesso vale per Ken Loach e la visione, l’approccio che egli ha sempre adottato nei confronti del fare film. In film, i suoi, che hanno resistito al passare del tempo, adattandosi sì a nuove condizioni socio-politiche, a nuove problematiche, andando al passo della globalizzazione, ma rimanendo sempre fedeli all’essenza e ad un’essenzialità di idee, valori e principi non solo universalmente condivisibili, ma anche eternamente validi.
È forse proprio lui allora la vecchia quercia (la Old Oak) del titolo. Un uomo, un regista, un intellettuale, un attivista che ha sperato fino all’ultimo di suscitare una qualche forma di cambiamento con le sue registrazioni del mondo, dei mondi che meglio conosceva e conosce, che più lo hanno e continuano ad interessargli. Uno che, con i suoi film, ha sempre invocato una trasformazione nella società europea, nel sistema e nell’ideologia capitalistico-borghese, ma che, alla veneranda età di 87 anni, si è reso conto che “ho passato la mia vita a lottare, ma non ci rimane più molto tempo”, e sceglie di comunicarcelo in due modi.
In primis, con la semplicità del quotidiano, dell’ordinario che ha sempre descritto e raccontato con rispetto e desiderio di autenticità. Per essere più precisi, con l’immagine - che solo in un secondo momento rivela la propria valenza fortemente allegorica - di un uomo, l’altro protagonista del film, il proprietario del pub The Old Oak TJ Ballantine, che tenta di rimettere a posto e sembra riuscire a raddrizzare la lettera “K” dell’insegna. Ma è solo una (sua) illusione: è questione di qualche secondo, infatti, ed è di nuovo storta come prima. Ma anche e soprattutto con quel finale, che, nel suo essere tra i più lieti e positivi di tutto il cinema loachiano, smaschera e denuncia la sua alterità, la sua difformità e quindi il suo carattere presumibilmente onirico. Una visione, un quadro, una scena che il regista ha sempre voluto veder compiersi nella realtà, ma che egli qui riconosce essere possibile, attuabile, immaginabile solo ed esclusivamente sul grande schermo.
Basterebbero questa consapevolezza, quella immagine-confessione e i due momenti - all'inizio e alla fine - già menzionati sopra, per fare di The Old Oak un’altra preziosa lezione di cinema da parte di un cineasta che non avrebbe più nulla da dimostrare o da confermare, ma che ciononostante continua ad osservare ed ascoltare in religioso silenzio - come noi facciamo con i suoi film - un mondo che ha sempre colto, impresso, visto attraverso la prospettiva degli ultimi, ponendo l’occhio partecipativo, limpido, in secondo piano, al servizio degli emarginati, degli emigrati e dei disoccupati desiderosi di un senso di giustizia e di un ideale coerente alla loro dignità di lavoratori e di uomini.
Categorie, volti, storie, questi, che ritrova - cambiati, diversi, nuovi, ma in fondo sempre riconoscibili - in questo racconto passibile forse di semplicismo nel delineare i contrasti e i suoi attori e di manicheismo nello scioglimento di qualche nodo, eppure esemplare nel modo in cui descrive ed affida alle immagini, alla forza di un primo piano o alla direzione quanto più genuina, sensibile, degli abituali attori non-professionisti (tra cui spicca Dave Turner, il cui volto, con i suoi segni, le sue imperfezioni, le sue ruvidezze, è di fatto un’impeccabile mappa della geografia umana del personaggio che interpreta), il malessere, le inquietudini, i traumi, i problemi, ma anche la profonda ed emozionante voglia di vita, di riscatto, di armonia che compongono, al solito, ogni sua piccola, grande sinfonia umana. Anche la più luttuosa, disperata, struggente, disillusa.
Perché in mezzo al bianco e nero, agli assoluti a cui sembra ridursi il mondo, quantomeno al cinema c’è sempre spazio e tempo per un po’ di luce. C’è sempre posto all’Old Oak.
Ti è piaciuta la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.