TITOLO ORIGINALE: I predatori
USCITA ITALIA: 22 ottobre 2020
REGIA: Pietro Castellitto
SCENEGGIATURA: Pietro Castellitto
GENERE: drammatico, commedia
PREMI: PREMIO ORIZZONTI per la miglior sceneggiatura al FESTIVAL DEL CINEMA di VENEZIA; DAVID DI DONATELLO al MIGLIOR REGISTA ESORDIENTE
Un evento fortuito e fortunato intreccia i percorsi di due famiglie socialmente ed economicamente agli antipodi: i radical chic e borghesi Pavone e i proletari e fascisti Vismara. Al suo esordio dietro la macchina da presa e alla sceneggiatura, Pietro Castellitto riesce a riscattarsi dalla pesante eredità paterna, firmando una commedia geniale e perturbante, dal racconto e attuazione complessivamente ambigui. Una regia e messa in scena fredda e volutamente sgraziata, un montaggio asciuttissimo, una sceneggiatura che - prestandosi a numerose interpretazioni e chiavi di lettura - confeziona momenti di rara bellezza e ironicità ed un cast meraviglioso sono gli ingredienti fondanti un cocktail filmico che si diverte a scherzare e prendersi gioco dello spettatore. L’ouverture anomalo, ingannevole ed encomiabile del cosiddetto “terzo fratello D’Innocenzo”.
Scrivere la recensione di un film appena uscito in sala: un’azione che, finito il lockdown, da qualche mese a questa parte, era tornata ad essere un qualcosa di normale e quotidiano, quasi ovvio. Mai avrei pensato che, qualche settimana più tardi, tutto ciò che davo per scontato avrebbe compiuto un gigantesco viaggio indietro nel tempo - come un flashback che ricostruisce il fattaccio in un film giallo o quello che tratteggia la vita di Charles Foster Kane in Quarto potere (1941) di Orson Welles. Infatti, proprio quest’oggi (domenica 25 ottobre, ndr), il nuovo Dpcm, firmato dal premier Giuseppe Conte, ha decretato - così come successo a febbraio - uno stop per tutto il mondo dello spettacolo, cinema inclusi. Uno stop prevedibile, ma che mai avrei voluto avvenisse. Uno stop immotivato che dimostra, per l’ennesima volta, quanto poco conti la cultura e l’arte in un paese come l’Italia. Uno stop avvilente che, tuttavia, non mi ha privato del desiderio di assaporare, per l’ultima volta prima della chiusura (che, per ora, dovrebbe durare un mese solo), l’atmosfera e la magia che, da sempre, caratterizzano la sala e il Cinema. Fiero di questa mia decisione, ma leggermente sconfortato, ho deciso pertanto di dirgli arrivederci con la visione - come avrete già dedotto dal titolo - de I predatori, opera prima di Pietro Castellitto, figlio (d’arte) dei ben più noti Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini. E che arrivederci!
Vincitore del premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura alla scorsa edizione del festival del cinema di Venezia, il film racconta la storia di due famiglie romane economicamente e socialmente agli antipodi: i Pavone e i Vismara. I primi sono borghesi, frustrati, retorici, pomposi, ricchissimi e di grande raffinatezza (almeno all’apparenza); i secondi, al contrario, sono proletari, fascisti, sudici, disonesti, corrotti e gretti. Ad una prima occhiata, questi non sembrano avere nulla in comune. Tuttavia, un incidente ordinario e dall’esito fortunato porterà i loro cammini ad intrecciarsi, facendo emergere la loro vera essenza ed interiorità.
Qui impegnato nel triplice ruolo di attore, regista e sceneggiatore, Pietro Castellitto riesce a riscattarsi dalla pesante eredità familiare, imbastendo un’opera perturbante, spaesante, anomala, esplosiva e sorprendente. Un esordio da brividi che, oltre a lasciar intravedere una porzione di quello che sarà il futuro del giovane e promettente cineasta, testimonia una conoscenza ed un amore smisurati, da parte di quest’ultimo, per la golden age cinematografica italiana e, in generale, per la Settima Arte. Un’idea autoriale che fa riferimento e rielabora il Michelangelo Antonioni della trilogia dell’incomunicabilità (composta da film come L’avventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962), proseguita poi con capolavori come Blow Up (1966) e Deserto Rosso (1964)) e il Federico Fellini circense e farsesco de I vitelloni (1953), Roma (1972) e Amarcord (1973) è la base fondante un’impalcatura filmica che fa di aspettative e attese tradite, predate o truffate il suo fulcro semantico e metaforico.
Un inizio in flashforward alienante e inconsueto - in cui il cineasta, grazie ad un paio di elementi (campi lunghi su strade di campagna, il suono di una macchina in avvicinamento e vari jump cut), riesce ad instillare nello spettatore inquietudine e frustrazione nei confronti di un avvenimento che è vittima di una sottrazione visiva irritante ed insolita - è la vera e propria dichiarazione d’intenti e di forma della creatura di Castellitto. Questo prologo prolettico, che annienta il movimento (questa macchina la vediamo posteggiata pochi secondi più tardi) in favore della creazione di una tensione sonora che raggiunge il suo culmine nell’esplosione di una bomba - ovviamente fuori campo - di Favolacce(sca) memoria; lascia successivamente il posto alla rappresentazione del territorio di caccia dei predatori: la “giungla” urbana. Attraverso un abile e frequente cambio di punti di vista, il pubblico fa dunque la conoscenza del truffatore - interpretato da un Vinicio Marchioni ghignante -, personaggio “fumoso e fumante” centrale ai fini della pellicola, nonché incarnazione dell’Italia di oggi; un’Italia di truffe, truffati e truffatori. Questi ultimi nascosti - come dimostrato dalla messa in scena e proprio da questo piano sequenza sul litorale di Ostia - in mezzo alla gente comune, a quelli che, per alcuni, sono i veri ladri (gli immigrati) o a coloro che, tenendosi in forma, tentano di ingannare la morte (gli sportivi).
Ed è proprio una truffa riguardante il nostro Marchioni, una signora anziana di nome Ines ed un’orologio dall’apparente valore di 1000€ ad innescare l’intreccio de I predatori che, seppur teoricamente lineare e semplice, funge da mero pretesto per trattare tematiche tra le più disparate. Lo scontro generazionale borghese tra “i primi giovani stronzi della storia” - quelli del post ‘68, i genitori - e i giovani d’oggi - alienati, imprevedibili e "destabilizzanti" -; l’opposizione e il contrasto tra due mondi completamente differenti, ma che condividono desideri e nevrosi; il concetto di buono e cattivo e, di conseguenza, la questione su cosa sia facile o difficile essere e il tema, sempre attuale (e talvolta correlato), di armi e fascismo - conditi successivamente con il bisogno innato di evasione rispetto ad una realtà soffocante, ordinaria e scontata, che può tradursi nell’adulterio o nella smisurata ricerca di una bomba - sono gli argomenti alla base di un racconto consapevole ed onesto, non tanto con lo spettatore, quanto con sé stesso, che non fa che dimostrare, ancora una volta, l’abilità e la lucidità autoriale del giovane Castellitto.
Come merda di piccione, io casco sulla folla. Di giorno leggo Freud, di notte sniffo colla […] Nonna perché il futuro fa più paura della morte?
Marie (Maria Castellitto)
Malgrado ciò, non pensate a I predatori come ad un dramma socialmente impegnato, quanto più ad una commedia - che procede per coincidenze fortuite - pungente e complessa, in cui nessun elemento è ermetico e autonomo, ma contestualizzato e soddisfatto in un quadro globale. L’orologio, il film sulla grande guerra girato da Ludovica Pensa, Nietzsche, le svastiche e i simboli fascisti, una maglietta che recita “Homme à la mer”, gli anni compiuti da due personaggi durante il corso del racconto: tutti questi elementi non sono posti casualmente nella sceneggiatura di Castellitto, ma acquisiscono una loro utilità, una volta conclusa la visione. O forse no? Infatti, la peculiarità caratteristica e prettamente goliardica della pellicola è il suo continuo prendersi gioco dello spettatore, stravolgendone certezze, pregiudizi e aspettative, in ripresa sia di quel gioco di montaggio citato poco sopra, sia di quello stesso atteggiamento farsesco e provocatorio ripreso dal Fellini circense. Un circo umano, quello de I predatori, in cui tutto si confonde; in cui le diversità si annullano; in cui il confine tra giusto e sbagliato, tra buono e cattivo diventa sempre più labile; in cui si ribalta ogni impalcatura ideologica precostituita, a partire dal tabù che vede, da un lato, la sinistra come aperta, progressista e placida - rappresentata dalla famiglia Pavone - e, dall’altro, la destra (o estrema destra) come conservatrice, reazionaria e retrograda - simboleggiata dai Vismara. Questo dualismo ed ambiguità è costante e persistente, soprattutto a livello rappresentativo, oltre che puramente narrativo. Basti solo pensare alla scelta del professor Fiorillo (Nando Paone) tra il vitello tonnato o la pasta alla norma, tenuti rispettivamente nella mano sinistra e destra da Federico Pavone (Pietro Castellitto), al dialogo “Ti ricordi dove sta?/Sta a destra./No, sta a sinistra” tra lo stesso Federico e il dottor Bruno (Dario Cassini), collega di Pavone senior, in merito alla locazione dell’ufficio di quest’ultimo, o all’inquadratura, impostata come finta dissolvenza incrociata, delle mani destre di Claudio Vismara (Giorgio Montanini) e della moglie, separate dal vetro del parlatorio di un carcere.
Tuttavia, l’opera di Castellitto è pronta a sorprendere nuovamente il pubblico, dando vita ad una narrazione che privilegia un’empatia e una compassione nei confronti di coloro che, spontaneamente ed ideologicamente, dovrebbero essere i “cattivi”, le figure da disprezzare. Difatti, se i Pavone si mostrano come radical chic troppo costruiti, svogliati, quasi ridicoli nei loro pensieri - i quali, spesso nascondono un intellettualismo finto e falsato -, i Vismara sono più concreti, comprensibili, sinceri e, per questo, maggiormente empatizzabili. Questo contrasto tra due nuclei familiari (che, causato da una preferenza registica tutt’altro che subliminale, si converte poi in uno scontro/incontro tra due dimensioni sociali antitetiche) è perfettamente sottolineato dalla macchina da presa che, nelle sequenze concernenti i Pavone, sceglie di mantenersi fredda e distaccata, mentre, in quelle dei Vismara, si spinge addirittura nella rappresentazione ravvicinata ed intima di momenti di profonda e palpabile tenerezza (l’intero frammento della visita in ospedale è un piccolo gioiello). Nonostante ciò, il tutto si riduce - e qui ribadisco ex novo la vicinanza al cinema esistenziale di Antonioni - ad un’incomunicabilità di fondo che, pur non precludendo l’espletarsi di discorsi e scambi di battute con concetti e contenuti di senso compiuto, condiziona e degrada pesantemente i rapporti sociali ed emozionali tra i personaggi. Unitamente a dialoghi sconclusionati e accidentali nel loro sviluppo ed intenti, tale impossibilità viene successivamente ed ulteriormente ricalcata da una regia e messa in scena immobile ed insolita - composta da inquadrature spesso imperfette e incomplete, altre volte metaforiche e allegoriche - e da un montaggio asciuttissimo, frammentario e frammentato, con sprazzi di intellettualismo.
Io ho la profonda necessità di una bomba...
Federico (Pietro Castellitto)
Chi è il predatore? Forse nessuno, forse tutti, forse la società in sé. Allora, chi è la preda? Queste sono soltanto alcune delle domande e delle perplessità che emergono istintivamente, una volta ultimata la visione de I predatori che - optando per una conclusione circolare, inaspettata e criptica, tra il meta-cinematografico e il nichilista - ribadisce ancora una volta quel rapporto di farsa e presa in giro amichevole che sussiste ed intrattiene costantemente col proprio pubblico. Un film di mancanza e completamento, di traditori e traditi, di buoni e cattivi, di persone arrese e persone incoscienti; un labirinto fatto di intrecci, di tensione emotiva e narrativa, di frasi più profonde e potenti di quanto si potrebbe pensare, di umanità e bestialità. Una commedia atipica, un film che racconta l’oggi in maniera grottesca, ma profondamente lampante, un film postmoderno che punta alla confusione e al caos - figli dei tempi moderni - dello spettatore. Molte cose si potrebbero dire dell’esordio ingannevole, ma indubbiamente pregevole, di un nuovo e potenziale prodigio del cinema italiano di nome Pietro Castellitto. Per citare il film di Lucio Pellegrini - in cui C. interpretava uno dei ruoli principali - E’ nata una star? Solo il futuro (che, riferendomi alla canzone della giovane Marie, “speriamo non faccia più paura della morte”) potrà dirlo.