TITOLO ORIGINALE: Padrenostro
USCITA ITALIA: 24 settembre 2020
REGIA: Claudio Noce
SCENEGGIATURA: Enrico Audenino, Claudio Noce
GENERE: drammatico
PREMI: COPPA VOLPI per la MIGLIORE INTERPRETAZIONE MASCHILE al FESTIVAL di VENEZIA
Nella Roma di fine anni ‘70, il giovane Valerio Le Rose assiste all’attentato ai danni del padre, da parte di un commando di terroristi di estrema sinistra. L’evento segnerà indelebilmente la sua vita e quella di tutti coloro che lo circondano, incluso l’enigmatico Christian, ragazzino ribelle con cui Valerio fa presto amicizia. Claudio Noce firma un dramma intimo e personalissimo che spreca il proprio tempo diegetico per la trattazione e lo sviluppo di un arco narrativo abbastanza fuori luogo e dagli esiti confusi e sconcertanti, sopprimendo, di conseguenza, qualsiasi sbocco narrativo potenzialmente suggestivo e riflessivo. Un film che raggiunge la sufficienza solamente grazie all’ispirata (e salvifica?) interpretazione di Pierfrancesco Favino e ad un’atmosfera attentamente costruita.
Un’interpretazione può salvare un film? La prova attoriale di un singolo, dedicato ed ispirato, interprete può veramente riabilitare un’impalcatura cinematografica che naviga tra mediocrità e distinzione? Questa è soltanto una delle principali e possibili domande che potrebbero sorgere nella mente dello spettatore, una volta ultimata la visione di Padrenostro - dramma ambientato durante i nostrani anni di piombo, per la regia di Claudio Noce, che trae ispirazione da un fatto di cronaca che marchiò indelebilmente l’infanzia di quest’ultimo. Mi riferisco all'attentato del 14 dicembre 1976 operato dai Nuclei Armati Proletari ai danni del vice questore Alfonso Noce - padre del regista -, in cui persero la vita l’agente Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zichittella. Ad interpretare una specie di trasposizione su pellicola di Noce padre, un Pierfrancesco Favino in parte - vincitore, per il ruolo, della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla scorsa edizione del festival del cinema di Venezia - che, dopo aver impersonato Giuseppe Pinelli (anarchico italiano, nonché animatore del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa) in Romanzo di una strage (2012) di Marco Tullio Giordana, torna agli anni di piombo dall'altro lato della barricata, vestendo, per l’occasione, i panni del questore Alfonso Le Rose. Tuttavia, protagonista e soggetto effettivi del racconto filmico sono rispettivamente Valerio, figlio maggiore di Le Rose, e il suo shock/stress post-traumatico dopo aver assistito al tentato omicidio del padre da parte di un commando di terroristi. Mentre la famiglia tenta, con difficoltà, di superare il fattaccio, il bambino fa la conoscenza di Christian, un ragazzino poco più grande di lui dal background e origini sconosciute.
Nella traslazione di una vicenda che lo toccò da molto vicino - dunque riportando alla propria mente un periodo sicuramente doloroso ed infelice della propria vita -, Claudio Noce opta, a rigor di logica, per una regia estremamente intima e privata che ha, come obiettivo principale, una valorizzazione dei personaggi e della loro interiorità. A tal proposito, nel racconto ed esposizione di contesto, figure e dinamiche, la macchina da presa adotta, come punto di vista prevalente, gli occhi del piccolo Valerio - testimone e sopravvissuto di una realtà dei fatti che stravolgerebbe l’esistenza di chiunque. L’adozione di suddetta infantile prospettiva permette al regista di giocare e, talvolta, ingannare il pubblico che, posto allo stesso livello del bambino, riesce ad immedesimarsi (almeno inizialmente) con il suo dramma e conseguente bisogno di una figura di riferimento - individuabile sia nel padre sfuggente ed imperscrutabile sia nell’amico Christian. Primi e primissimi piani serrati, dettagli-sintomo di una condizione di vita inquieta e straziante e soggettive - che, prendendo in prestito lo sguardo del giovane Le Rose, ricercano l’espressività facciale, corporea e prossemica di coloro che gli si parano di fronte - sono gli elementi fondanti una direzione che basa gran parte della propria riuscita sulla rappresentazione degli effetti e ripercussioni (fisiche e psicologiche) di un qualcosa che avviene sempre fuori campo, poiché celato agli occhi di Valerio (e conseguentemente dello spettatore medesimo).
Ciò nonostante, questa empatia registica, oltre che narrativa, nei confronti di un protagonista giustamente escluso da verità ed eventi di cui non potrebbe sopportare il peso si converte in un’arma a doppio taglio per il successo di Padrenostro. Questo perché, una volta giunto ai titoli di coda, lo spettatore avrà sì compreso alla perfezione la psicologia e il danno emotivo subito da Valerio, ma avrà acquisito poco più che vaghe indicazioni su tutto ciò che è il quadro storico/filmico, a partire dal ruolo ricoperto dal personaggio di Alfonso all'interno della macchina giudiziaria italiana. Il risultato? Un film che non esaurisce appieno le proprie potenzialità ed un pubblico amareggiato e deluso.
Ed è proprio la delusione il sentimento preponderante di una sceneggiatura che, se affidata a mani più abili, avrebbe potuto dare vita ad un nuovo Il caso Moro (1986), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) o Una fredda mattina di maggio (1990), ma che, al contrario, si accontenta di essere Il sesto senso (1999) italiano. Una scrittura, quella di Claudio Noce ed Enrico Audenino, costantemente scissa tra scelte e risvolti di trama discutibili ed una complessiva prevedibilità di intenzioni ed esiti, il tutto completato da uno squilibrio ritmico non indifferente. Un prologo in medias res enigmatico, intrigante ed incalzante lascia il posto ad uno sviluppo, per contro, particolarmente svogliato e confuso. Indizio lampante di questa confusione ed incoscienza generale nell’elaborazione di un soggetto potenzialmente incisivo, un arco narrativo pressoché inutile e fuori luogo, nonché pesantemente anticipato - sia a livello dialogico che di messa in scena -, che, tramutandosi nel fil rouge principale del racconto, dà origine ad un finale che si presta a due chiavi di lettura differenti (una realistica ed una onirica), entrambe ugualmente vaghe e pretestuose. Una storia di padri solenni e di figli segnati, di sguardi rubati ed espressivi, di rapporti veri ed immaginari, di oggetti che tolgono la vita (le pistole) o la catturano (la cinepresa anni ‘70), di dialoghi realistici, veri ed autentici, purtroppo, si perde in un intreccio pilotato - che lascia intravedere volontà e finalità del regista - e costituito da soluzioni e compromessi scontati ed ingenui, quando non nebulosi ed inspiegati.
Tornando alla domanda in apertura d’articolo, un’interpretazione può salvare un intero film? Può, in questo caso, un ispirato Pierfrancesco Favino - seppur non nella sua migliore prova d’attore - riabilitare in pieno una pellicola sommariamente mediocre come Padrenostro? Sfortunatamente, la risposta è no. Non bastano infatti performance attoriali credibili e convincenti ed un’atmosfera certosina e curata - merito, in primis, di una colonna sonora fenomenale e di una ricostruzione storica molto attenta - a riscattare una produzione sfocata e disorientata che, pur avendo a disposizione numerose frecce al proprio arco, non le sfrutta a dovere. In definitiva, un’opera che vorrebbe essere innovativa e narrativamente nuova, ma che si configura come un mosaico stagnante e anonimo di un periodo sanguinoso e buio della nostra storia che avrebbe ancora moltissimo da dire.