TITOLO ORIGINALE: The King's Speech
USCITA ITALIA: 28 gennaio 2011
USCITA USA: 26 novembre 2010
REGIA: Tom Hooper
SCENEGGIATURA: David Seidler
GENERE: biografico, drammatico, storico
4 PREMI OSCAR tra cui MIGLIOR FILM e MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA
La storia del rapporto di amicizia tra re Giorgio VI, sovrano inglese affetto da una debilitante balbuzie, e il suo logoterapeuta, Lionel Logue, sullo sfondo dello scoppio della seconda guerra mondiale. Tom Hooper, alla sua prima vera grande prova registica, confeziona un film che, basandosi quasi unicamente su un meraviglioso cast ed un’ottima sceneggiatura, si configura come un biopic che rispetta in pieno i suoi intenti, pur con qualche paralizzante stortura e ridondanza tecnica.
La storia, la letteratura e il teatro sono affollati da figure di re e regine che, nel bene o nel male, hanno lasciato la propria impronta; un segno del loro passaggio. Ci sono re che hanno costruito imperi tra i più vasti di sempre, sovrani che sono caduti vittima di pazzia e paranoia, monarchi illuminati che hanno portato rivoluzione e cambiamento nella società, nella politica e nel modo di vedere il mondo e re che hanno combattuto e vinto guerre. E’ quest’ultimo il caso di Giorgio VI - sovrano d’Inghilterra durante il difficile periodo della seconda guerra mondiale - che, passato alla storia per la sua balbuzie debilitante, a modo suo, è riuscito a vincere, grazie anche all'aiuto del terapeuta Lionel Logue, un’ardua e personale battaglia. Nel 2010, proprio per raccontare questa vicenda e il semisconosciuto rapporto d’amicizia tra re Giorgio e Lionel, nasce Il discorso del re - vincitore di 4 (su 12 candidature) premi Oscar.
Ancor prima di dirigere successi commerciali e di critica come Les Miserables e The Danish Girl e l’universalmente odiato Cats, Tom Hooper presta la propria visione ed abilità ad un biopic che, narrando uno dei momenti più duri e tesi della storia britannica, rappresenta, prima di tutto, la sua prima vera grande prova registica. La tecnica e pensiero registico di Hooper ben si confanno ad una pellicola che basa quasi tutta la propria riuscita su una sceneggiatura elegante e raffinata e dialoghi dall’essenza fondamentalmente teatrale. Quest’anima drammatica messa in gioco dalla narrazione viene sintetizzata ottimamente dal cineasta mediante una regia inserita negli eventi, ma oggettiva ed imparziale allo stesso tempo. Inquadrature geometriche e stabili, mai sbilanciate o sproporzionate sono la base costitutiva di un utilizzo e conoscenza determinata e consapevole, da parte di Hooper, della macchina da presa e delle sue proprietà espressive e valorizzanti. Una preponderanza nell’uso del grandangolo e dei carrelli e nella scelta/alternanza di primi-primissimi piani e totali è sintomo e caratteristica primaria di una direzione che fa dei personaggi, e di conseguenza degli interpreti, l’essenza fondante la propria poetica.
Parallelamente a ciò, la macchina da presa, aiutata dalla grandissima e stupefacente interpretazione di Colin Firth, si impegna nel ricordarci, spasmodicamente e ad ogni cambio sequenza, la gravità e sofferenza provocate da questo disturbo e sofferte dal re sia in ambito professionale che intimo e familiare. Questa oppressione è sottolineata, in secondo luogo, dal comparto scenografico, composto principalmente da lunghi corridoi e ampi saloni privi di alcun tipo di calore o accoglienza (almeno fino alla sequenza finale). Seppur robusta e consapevole, nella regia di Hooper è però quantomeno evidente il ritorno ciclico e ridondante - quasi routinario - di alcune meccaniche e costruzioni che, portando ad un appiattimento progressivo di qualsiasi inventiva tecnica e ad un rallentamento quasi impercettibile, ma presente, del ritmo del racconto, non fa che penalizzare la stabilità ed integrità del prodotto finale. La stessa anonimia progressiva è ravvisabile anche nel montaggio - stanco, fin troppo convenzionale, senza alcun guizzo creativo che sottolinei le dinamiche della narrazione. Ciò nonostante, una nota di merito è da assegnare all'emozionante colonna sonora di Alexandre Desplat e alla sublime ricostruzione storica messa in campo, grazie a cui lo spettatore riesce ad immedesimarsi ed appassionarsi realmente alla vicenda e ai suoi personaggi.
Aspettando che sia io a cominciare una conversazione si rischia di aspettare abbastanza a lungo.
Giorgio VI (Colin Firth)
Detto ciò, la virtù principale dell’impalcatura filmica de Il discorso del re è però riscontrabile nella sceneggiatura di David Seidler - a tutti gli effetti, il cuore pulsante dell’intera produzione -, la cui analisi va condotta su due livelli, che rappresentano anche i suoi due punti di forza maggiore: la scrittura dei dialoghi e la caratterizzazione del trio protagonista. Entrambi gli aspetti hanno, come obiettivo comune, una resa quanto più realistica e tangibile della disfunzione di re Giorgio VI. Tutto ciò avviene mediante scambi di battute intelligenti ed ingegnosi, pieni di quella sagacia ed ironia tipicamente britanniche che, tuttavia, celano al loro interno un nucleo emotivo molto forte e vivace; e per mezzo di una costruzione tormentata, umana e compassionevole dei personaggi protagonisti. Questa scrittura, così emotiva, così drammatica, teatraleggiante ma estremamente realistica, è bilanciata da una trattazione subliminale sulla diffusione e significato della radio nella prima metà del ‘900 e condensata nelle grandissime interpretazioni che, insieme al lavoro di Seidler, sorreggono tutta la “baracca”. Mi riferisco, nello specifico, alla sopracitata interpretazione, fragile e sensibile - premiata con un Academy Award -, di Colin Firth nei panni di re Giorgio, all'elegante prova di Helena Bonham Carter nel ruolo della moglie/regina Elizabeth Bowes-Lyon e all’espressiva e paterna performance di Geoffrey Rush come Lionel Logue.
Vincitore, tra i tanti, del premio Oscar come miglior film, Il discorso del re si configura dunque come un biopic dalle intenzioni chiare e precise che va dritto al punto e al cuore, senza sfociare in sottotrame o divagazioni complesse ed allunganti. Sarebbe sbagliato non ammettere che le due ore di durata, in certi punti, si sentano lievemente - a causa di un montaggio ed un apparato registico ben costruiti ma che peccano di inventiva -, ma, ciò malgrado, la pellicola soddisfa e rispetta pienamente i propri intenti originari - merito di un ottimo cast ed una sceneggiatura più che buona -, mostrando allo spettatore tutto ciò che questi si aspetterebbe di vedere. Niente più, niente meno.