TITOLO ORIGINALE: The Wonderful Story of Henry Sugar; The Swan; The Rat Catcher; Poison
USCITA ITALIA: 30 settembre 2023
USCITA USA: 30 settembre 2023
REGIA: Wes Anderson
SCENEGGIATURA: Wes Anderson
CON: Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Dev Patel, Ben Kingsley, Rupert Friend
GENERE: commedia, drammatico, avventura, thriller
DURATA: 17-37 min
PIATTAFORMA: Netflix
In un moto produttivo instancabile, dopo Asteroid City Wes Anderson produce per Netflix quattro cortometraggi tratti da racconti brevi di Roald Dahl. Un’opportunità che coglie e fa coincidere col discorso sulla forma della finzione e sulla finzione della forma alla base della sua ultima produzione, sdoppiandolo, rendendolo trasversale, versatile ed univoco, dando vita forse all'unica possibile forma di traduzione fedele degli originali dahliani e, al contempo, ad una crasi eccellente del suo cinema, intrinsecamente scisso tra (l’acutezza della) parola e (il radicalismo eccentrico delle) immagini.
L’ultimissima incarnazione (del cinema) di Wes Anderson ha sempre posto al centro delle sue solite, immancabili e rigorose simmetrie visive; dei suoi tableaux a metà tra l’animazione indimenticata ed una Wunderkammer spinta da un approccio ed un atteggiamento catalogativo, autistico, fanciullesco ma con un forte senso di disillusione in filigrana; di quelle che sono le particelle della sua idea di linguaggio, e della sua profonda e, oggi come non mai, presente ed attuale rivoluzione del mezzo cinema, un discorso sulla creatività dagli echi quasi gondriani.
Ecco allora che, dietro le urgenze primarie - poetiche e narrative - di pellicole ingiustamente stroncate e davvero intelligenti e sincere come The French Dispatch e Asteroid City, si fa largo in maniera coerente, sottile ed indefessa una vera e propria celebrazione dell’intuizione artistica, della soluzione, di un genio e di un talento (talora, proprio come nel caso dell’ultimo lungometraggio, opprimenti e ingombranti), che bisogna vedere e pure non vedere; descrivibili soltanto con le immagini e i vuoti, le assenze, i buchi che ivi si possono creare. Un omaggio all’arte nel suo farsi, ma anche al mestiere del farla, all’instancabilità nel farla (si dia un’occhiata alla prolificità del regista negli ultimi tempi). Alla forma che la definisce e alle forme che ne regolano il funzionamento artificioso ed illusorio, in una negazione e mossa di scacco nei confronti di chi vede proprio il formalismo andersoniano come motivo di demerito ed insuccesso dei suoi intenti.
Era questo il principio alla base degli articoli del già citato The French Dispatch, i quali, proprio grazie alla ricchezza e al potere suggestivo della forma, riuscivano a rendere straordinaria anche la più ordinaria e quotidiana delle manifestazioni, e affascinante la più becera, volgare o infausta delle realtà. È sempre questa forma essenziale ad informare, nel più recente Asteroid City, la panacea vivace e variopinta dello spettacolo e del prodotto artistico che dà colore ed indole ad un’esistenza vissuta da spettatore, ma che paradossalmente ne intensifica le inquietudini e ne mette in mostra crepe e incrinature. La forma della finzione e la finzione della forma sono però il vero e proprio centro dei nuovi cortometraggi andersoniani che hanno fatto comparsa da poco - e, quantomeno in Italia, in contemporanea con l’ultimo lungo - nel catalogo streaming di Netflix.
Sono quattro lavori di sintesi e miniatura stilistica, con cui il cinema dell'autore texano prende di fatto e di nuovo residenza (dopo il sublime Fantastic Mr. Fox) nella sterminata, fantasiosa ed inventiva letteratura "breve" di Roald Dahl. I loro titoli sono La meravigliosa storia di Henry Sugar (presentato fuori concorso all’ultima edizione del Festival di Venezia, e già recensito qui), Il cigno, Il derattizzatore, e Veleno, e tutti rappresentano un’opportunità che Wes Anderson fa coincidere con questo tratto della sua ultima produzione, sdoppiandolo, rendendolo trasversale, versatile ed univoco. Più in generale, dando vita alla migliore, forse pure l'unica possibile forma di traduzione fedele degli originali dahliani (con tanto di note antologiche in calce) e, al contempo, ad una crasi eccellente del suo cinema, intrinsecamente scisso tra (l’acutezza della) parola e (il radicalismo eccentrico delle) immagini.
È un cinema, quello andersoniano, che trattiene e conserva ad ogni afflato una straordinaria capacità di storytelling, di magnetismo, di scrittura visiva, anche quando non fa vedere nulla di davvero nuovo. Anche quando si fissa sul nulla, sul vuoto, come il nero di una candela. Quando letteralmente non mostra nulla. Quando, come nel caso de Il derattizzatore, affida allo spettatore e alla sua fantasia il compito di riempire gli effettivi buchi della messa in scena.
Un cinema, insomma, che - e lo ribadisce questo quartetto di lavori - dà concretezza visiva e rende immagini i pensieri; che riassume ed esprime, sempre nei confini di uno stretto controllo compositivo, i moti, i ritmi, l’essenza, la fluttuazione, il traffico costante di pensieri che investono e ricolmano la mente umana. Ancor di più, la mente di un creativo come Wes Anderson, che qui annulla il divario tra testo e sottotesto che sussiste nei suoi tentativi lunghi, e arriva definitivamente a mostrarci, più che a parlarcene (anzi le parole sono proprio uno strumento integrante di un lavoro tutto visuale da teatro sperimentale), l’allestimento e l’elaborazione di un’idea, di un’intuizione o, in altre parole, del segreto, della maledizione e dell’energia vitale di quella regia del cui peso e primarietà egli è uno dei più audaci, meticolosi, fulgidi ed incompresi sostenitori.
Si pensi alla precisione nella direzione del gruppo di attori che si alternano di corto in corto (Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Dev Patel, Ben Kingsley e Rupert Friend), impegnati in tour de force sempre iper espressivi, ipertesi, ma non meno algidi ed apatici. O al modo in cui Anderson riesce ad integrare citazioni estetiche e fotografiche senza perdere un’oncia del proprio tocco, della propria personalità e delle sue atmosfere. O ancora, alla varietà ed ecletticità che dimostra nell’applicare quella regia e(rgo) quella formula, quella cifra, quel brand che dir si voglia, a diversi generi e morfologie di racconto, come il thriller e il cinema di tensione di Veleno - il più difforme dei quattro, ma ciononostante inconfondibile.
In fondo, è di questo che parlano questi ultimi lavori, in concerto e comunione con la poetica di Dahl. Della resilienza di uno stile, di una visione autoriale, che - come succede al cigno Peter Watson, ennesimo alter ego andersoniano - celebra l’alienante e nostalgica magia dell’immagine e dell’immaginazione, ma ammette e contempla anche la gravità della disillusione.
Ti è piaciuta la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.