TITOLO ORIGINALE: Lubo
USCITA ITALIA: 9 novembre 2023
REGIA: Giorgio Diritti
SCENEGGIATURA: Giorgio Diritti, Fredo Valla
CON: Franz Rogowski, Christophe Sermet, Valentina Bellè, Noemi Besedes, Cecilia Steiner, Joel Basman
GENERE: drammatico, storico
DURATA: 181 min
In concorso alla 80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Con Lubo, il regista di Volevo nascondermi Giorgio Diritti racconta la storia di un uomo jenish alla ricerca dei figli che lo stato svizzero gli ha portato via quando è partito come militare, ed inserito nel programma di rieducazione nazionale Kinder der Landstrasse. Sintesi delle ossessioni del cineasta bolognese, Lubo è un’opera di una disarmonia inspiegabile, sbagliat(issim)a, orfano di una direzione ben precisa e di una scrittura solida alla base.
Inizia sui passi e i volteggi ipnotici di una buona sequenza, Lubo di Giorgio Diritti, forse la migliore di tutto il film. Un segmento, nel quale vediamo il protagonista, tal Lubo Moser, uscire dal costume di un orso ed iniziare a danzare e giocare col pubblico vestito come una nobildonna. Un’allegoria visiva semplice, ma molto efficace che sintetizza, fin dai primi minuti, l’ambiguità, la doppiezza che risiede alla base della natura e della personalità di quest'uomo jenisch, originario dello svizzero Canton Grigioni, che può diventare spietato, aggressivo, intimidatorio, feroce se pungolato abbastanza o se, come una bestia, un orso, ne sente la necessità; ma che cela, dietro questa pelle, un animo gentile, femmineo, una sensibilità rara e delicata. Una scorza ferina alla quale dovrà rinunciare qualche istante più tardi, quando viene fermato da una pattuglia militare, la quale, obbedendo a quelle che sono le leggi dell’inverno 1939, lo sottrae alla propria famiglia, lo obbliga ad arruolarsi nell’esercito, e lo manda a pattugliare e proteggere i confini da un’eventuale invasione della Germania nazista.
Purtroppo, qualche giorno dopo, gli giungerà voce che, in sua assenza, la polizia ha preso i suoi tre figli e che, nel tentativo di impedirlo, sua moglie Miriana è morta accidentalmente. Inizia così per Lubo Moser un viaggio tra Svizzera, Austria ed Italia in cerca di rivalsa, vendetta e, soprattutto(?), dei bambini che, intanto sono stati affidati, dalla fondazione Pro Juventute, ad orfanotrofi e famiglie adottive svizzere nel contesto del Kinder der Landstrasse, un programma nazionale mirato a sradicare cultura e tradizioni degli jenisch su ispirazione dei princìpi dell'eugenetica.
Ingiustizia storica e sociale, pregiudizio nocivo e mortifero, e reietti, outsider, emarginati, sono sempre stati il baricentro d’interesse del cinema del bolognese Giorgio Diritti. Si pensi all’esordio Il vento fa il suo giro, o a L’uomo che verrà sulla strage nazi-fascista di Marzabotto, o ancora all’ultimo Volevo nascondermi (Orso d'argento per il miglior attore, e vincitore di 7 premi David tra cui miglior film) sulla storia vera del pittore e scultore Antonio Ligabue.
Lubo, in questo senso, è una sorta di sintesi, oltre che di logica prosecuzione, di tutta la poetica dirittiana. Adattamento del romanzo Il seminatore di Mario Cavatore, la pellicola fonde infatti il ritratto di un personaggio idealmente multiforme, composito, non necessariamente gradevole, vittima della superstizione e del pregiudizio all’alba del diffondersi delle idee di sterminio e della soluzione finale del regime hitleriano; con il racconto di un caso di sopraffazione istituzionale, di infamia, di lassismo giuridico, di leggi folli e discriminatorie che riveleranno poi un volto più profondo, un lato ancor più oscuro.
Purtroppo per Diritti e per il buon nome della sua filmografia, Lubo è un’opera di una disarmonia inspiegabile, un testo che non riesce a portare a termine e a sviluppare bene neanche uno degli aspetti sopraindicati. Un film semplicemente sbagliat(issim)o, che dà sempre l’idea che gli eventi, i fatti, gli elementi importanti avvengano fuoricampo, da un’altra parte, con altri personaggi.
Più precisamente, per quanto riguarda la descrizione della figura di Lubo Moser - che poi ucciderà, sottrarrà e vivrà con il nome e l’identità del mercante Bruno Reiter - non è molto dissimile, ma è decisamente meno efficace, complessa ed ipnotica di quella di Antonio Ligabue nel già citato Volevo nascondermi. Anzi, a sua differenza, questi non possiede nemmeno un tratto capace di renderlo simpatico e comprensibile agli occhi dello spettatore, malgrado l’intenzione della pellicola sia proprio di renderlo un eroe umano, fallibile, tragico, ma pur sempre un eroe, dalla cui (iniziale) abnegazione, sacrificio e tristezza dovremmo rimanere colpiti.
Al contrario, in relazione alla sua anima di denuncia, e al racconto del riprovevole programma Kinder der Landstrasse, per due terzi delle sue tre(!) ore Lubo parla d’altro, perde il centro del proprio intreccio, mostrandosi più interessato alle ridicole conquiste amorose del nostro (apparentemente irresistibile) jenisch, con un tono ed un registro da romanzetto rosa o da feuilleton. Se ne ricorda, di questa sua missione, solamente nei 20 minuti conclusivi, tinti di un didascalismo e didatticità agghiaccianti e da un’incredibile schizofrenia compositiva e registica.
Ed è proprio quest’ultimo il difetto imprevisto e più cocente del film di Giorgio Diritti: il suo essere praticamente orfano di una chiara idea e direzione all’origine, dietro il tavolo della sceneggiatura (sgraziata e scialba, firmata dallo stesso regista insieme al sodale Fredo Valla) e la macchina da presa, ed infine in sede di montaggio, nonostante la grossa co-produzione europea alle spalle. Cosa che si rintraccia anche nelle interpretazioni, tutte mal dirette e penalizzate dall’effimerità e banalità della scrittura, a partire da quella di un Franz Rogowski stereotipatissimo, che si riconferma costante irriducibile del cinema d’autore a cavallo delle Alpi.
Se Lubo era ed è tra le migliori proposte della produzione nostrana di quest’anno (e deve esserlo perché altrimenti non si spiega la presenza in concorso alla 80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia), allora, permettetecelo, è meglio nascondersi.
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