TITOLO ORIGINALE: The Fabelmans
USCITA ITALIA: 22 dicembre 2022
USCITA USA: 11 novembre 2022
REGIA: Steven Spielberg
SCENEGGIATURA: Steven Spielberg, Tony Kushner
GENERE: drammatico, autobiografico
DURATA: 151 min
Presentato in anteprima al Toronto International Film Festival 2022
48 anni dopo il suo debutto cinematografico, Steven Spielberg firma The Fabelmans, la sua opera più intima e personale, una lettera d'amore alla sua famiglia e al cinema (tutto, senza distinzioni). A partire dal racconto dei suoi primi vent'anni di vita e il trauma lancinante dell'allontanamento e successivo divorzio dei genitori, il regista parla della cosa che ama di più al mondo, il cinema, ma lo fa andando oltre il solo e semplice tributo. Come West Side Story prima di lui, The Fabelmans è un film in cui Spielberg decide di scomodarsi, di mettere in discussione ciò in cui ha sempre creduto, di vedere ciò che è stato e che conosce bene da un’altra prospettiva. Uno che ragiona sull'atto della creazione quale atto egoistico, quale tentativo irrefrenabile, disperato, doloroso e spesso impossibile di tenere insieme e così dare un senso ai frammenti sconclusionati ed incomprensibili della propria vita. Il tutto, senza sbugiardare, anzi dimostrando ancora una volta che il suo è ancora "tutto il cinema possibile".
Come si suol dire, certi treni passano solo una volta nella vita. Sono due quelli che hanno cambiato per sempre la vita di Steven Spielberg, così come lui stesso ci racconta in The Fabelmans, la sua ultima fatica o, come gli piace definirlo, il suo “film più personale”, la sua “lettera d’amore alla famiglia”.
È dalla spettacolare, meravigliosa, ed insieme truce e traumatica collisione di questi due treni che il cinema o - per citare il film del 1952 di Cecil B. DeMille in cui questo epifanico scontro avviene - “il più grande spettacolo del mondo” si insedia prepotentemente nella vita e nella mente di un allora ignaro bambino di sei anni originario di Cincinnati. Quello che, per puro caso, vede quella sera, in quella sala buia, che accoglie ad occhi e bocca aperta (espressione che passerà poi alla storia come “Spielberg face”) lo scuote a tal punto che egli, quella stessa notte, rivive quella stessa scena in sonno. Ma, si sa, la notte porta consiglio: ora infatti quei due treni che si scontrano, accartocciano, distruggono, che deragliano portandosi dietro le vite di decine di persone, non gli fanno poi così tanta paura, anzi arriva quasi a comprenderli.
Anche se non lo sa ancora, egli inizia quindi ad afferrare la magia irrefrenabile, la forza dirompente e primordiale di quel mezzo e di quello spettacolo che diventeranno prima un'ossessione e, poco dopo, il suo destino, la sua vocazione, un richiamo insopprimibile. Il grosso di questa sua intuizione non avviene tuttavia a parole, bensì dentro di sé, nel profondo, nelle viscere del suo corpo, così come nei suoi occhi, che rimarranno illuminati dell’intensità e della forza di quella visione, di quella finzione così reale - elemento, quest’ultimo, sottolineato nella pellicola dalla parvenza evidentemente artificiosa di un paio di lenti a contatto azzurrissime -, di quello scontro simulato, eppure così vivido e scioccante.
Qualora non l'aveste ancora capito, The Fabelmans è un film di scontri, ma anche di spiragli, di crepe che diventano pian piano fratture. È questa tensione, questa instabilità, questa vertigine, questo equilibrio sopra il caos, la forza che percorre, sorregge e striscia sotto la superficie delle vicende di Sammy Fabelman (inconfondibile alter ego dello stesso Spielberg, interpretato meravigliosamente dalla rivelazione Gabriel LaBelle) e della sua famiglia (mamma, papà e tre sorelle). Quella che dà corpo a sequenze e momenti, come la rivelazione simil Blow Up, il momento di massima disgregazione dei legami, o ancora, il balletto della madre di fronte alla luce dell’auto; sequenze, che solo un uomo che ha raggiunto una simile consapevolezza e conoscenza del linguaggio può realizzare.
La stessa che informa i 150 meravigliosi e solidissimi minuti di un’opera che utilizza un trauma lancinante della biografia del suo regista, ovvero il progressivo allontanamento e il conseguente divorzio dei suoi genitori, per parlare della cosa che ama di più al mondo: il proprio mestiere (ancor prima che la propria arte), la sua necessità esistenziale, il suo dolore e il suo rimedio, il proprio armadio dei segreti, la propria arca scoperta, perduta ed infine ritrovata e mai più abbandonata, la ragione di tutta la sua vita, il cinema. Tutto il cinema, anche quello che, per ideologia, storia ed esperienze, dovrebbe disdegnare (coraggiosissimo, in tal senso, il rimando a Il trionfo della volontà, film di bieca propaganda nazista di Leni Riefenstahl, per il filmino della Marinata, con tanto di celebrazione estremamente sensuale ed erotica del bullo antisemita).
Non fraintendete però: The Fabelmans è ben più dell’ennesimo memoir autobiografico che diventa tributo, omaggio, celebrazione del mezzo con cui, quella storia, la si sta raccontando. Senza nulla togliere a chi, negli ultimi anni, ha posto sé stesso di fronte alla macchina da presa, in certi casi donando al grande schermo schegge di preziosissimo cinema (Cuarón e Sorrentino su tutti), altre volte annoiando con esercizi sterili e costosissime sedute psichiatriche - Spielberg non può e non vuole nemmeno accodarsi a questa pletora di titoli, a quel momento di autoriflessione che sembra essere quasi un passaggio obbligato per ogni autore che si rispetti. Egli, come gli insegna qualcuno giusto nel finale di questo film - una lezione che ha introiettato e riproposto indefessa fino ad oggi -, preferisce e vuole guardare più in alto, posizionare altrove la linea dell’orizzonte.
Per fare questo, deve però specchiarsi e riconoscersi davvero in ciò che sta raccontando e descrivendo, deve spogliarsi realmente di tutto ciò che indossa, deve ritrovare il fanciullino che è stato e che continua a soggiornare nel suo intimo - quello di pascoliana memoria, colui in grado di cogliere l’armonia e il fluire delle cose al di là o, meglio, assieme alla ragione, quello che vede nel buio e sogna alla luce - e quei volti noti e amati. Deve insomma riconoscere il suo vero io, vedersi tanto bene quanto riesce a vedere gli altri (“tu mi vedi davvero”) e fare la cosa più semplice ed insieme più ardua di tutte: metterlo in scena. Rendere persistenti e fintamente reali i propri ricordi, nel bene e nel male. Farne sogni che non dimenticheremo mai, pure e specie se - come inconsciamente lui stesso confida ancor prima di entrare in quel cinema a vedere il film di De Mille - a volte “i sogni fanno paura”.
Ciò detto, Spielberg e The Fabelmans non si vogliono fermare alle apparenze, ma vanno al di là. Al di là della pellicola testamentaria di un prestigiatore dell’immagine e dell’immaginario, di un inventore, di un indomito illusionista che compie il suo personale Amarcord, citando sé stesso e i suoi grandi successi, rallegrandosi dei bei vecchi tempi, celebrando ciò che è e ciò che è stato, svelando finalmente i trucchi delle sue magie, come vedremo ludicamente in una sequenza di preparazione di un filmino di guerra in 8mm. Al di là del film sulle origini della passione e del genio, del romanzo di formazione, suo e, di conseguenza - poiché (lo intuiamo ancor meglio dopo la visione di questo film) egli ha sempre messo qualcosa di sé e della sua biografia nelle sue creazioni -, delle centinaia di personaggi che ne abitano le pellicole. E ancora, oltre il resoconto dei primi passi che ha mosso all’interno dell’industria, delle mitiche personalità che ha incontrato e che lo hanno iniziato, dei film che ha visto, di cosa lo abbia poi portato a camion indemoniati guidati da oscuri figuri, a grandi squali bianchi, tripodi succhiasangue, nazisti, Olocausto, due guerre, alieni benevoli, incontri ravvicinati e ad un archeologo conosciuto con il nome del suo cane d'infanzia.
The Fabelmans è innanzitutto un film - il secondo degli ultimi tempi dopo West Side Story, un sincero omaggio alla madre laddove il predecessore era invece dedicato al padre - in cui Spielberg decide di scomodarsi, di mettere in discussione ciò in cui ha sempre creduto, di vedere ciò che è stato e che conosce bene da un’altra prospettiva, meno irridente e speranzosa, ma più agrodolce, ardua, di accettazione e negoziazione.
E se, nella nuova versione dell’iconico musical di Jerome Robbins e Robert Wise, si ragionava su un tipo di cinema oggi impossibile da riproporre - e il flop commerciale gli ha malauguratamente dato ragione -, qui non solo ripropone (con, ahinoi, tutti i pro e i contro del caso) quel ragionamento, dando vita all’ennesimo, fulgido ed ultimo esempio di cinema classico (nel senso più romantico del termine), ma riprende in mano i cocci della propria vita e, a differenza di quello che qualunque altro regista avrebbe fatto, non tenta di aggiustarli e così darsi pace. Al contrario, li sfrutta per fare arte e ragionare, in maniera lucida, sentita e con un pizzico di amara disillusione, sul percorso esistenziale e creativo, sui valori ed i dolori che lo hanno reso chi è oggi.
“Bisogna soffrire” scrive Spielberg [non lo faceva da ventun’anni, dai tempi di A.I. - Intelligenza artificiale], con l’aiuto del sodale Tony Kushner, in uno degli ultimi passaggi del copione di The Fabelmans. Allo stesso tempo, afferma però che, come ogni creazione dalla prima (l’uomo) all’ultima, un film è, in primis, un atto egoistico, una privazione ed una violenza che si compie nei confronti di qualcuno o qualcosa per la sola necessità di rispondere ai propri istinti, alle proprie necessità, per trovare, in questo caso, cura e rimedio ai traumi e ai fantasmi che infestano la propria esistenza.
In tal senso, si potrebbe avanzare che il cinema (così come l’arte in generale) non sia altro che una forma di codardia nei confronti della verità, e che le pellicole non siano che luoghi e dimensioni che utilizziamo per proteggerci, tutelarci, smorzare, celare, dissimulare quella stessa verità, dietro il segreto, il mistero, i 24 fotogrammi al secondo di cui si compone la finzione. Una bugia intima, nascosta tra le pieghe dell’immagine, con cui convivere e con cui, prima o poi, sempre e comunque, si dovrà fare i conti.
Come anticipato sopra, dirigere, girare, montare, creare consiste insomma in un tentativo irrefrenabile, disperato, doloroso e spesso impossibile di tenere insieme, avere un’illusione di controllo, toccare con mano (o proiettarsi profeticamente sulle mani) e così dare un senso ai frammenti sconclusionati ed incomprensibili della propria vita.
D’altro canto, il cinema in sé e per sé è forse l’arte delle fratture per eccellenza, dove, per fratture, intendiamo le inquadrature, le scene, i segmenti, quei frammenti di pellicola - sul cui taglia e cuci Spielberg dedica alcune delle immagini più passionali ed appassionate del suo cinema - che vengono tenuti insieme dal montaggio, che è poi lo specifico filmico, la peculiarità che distingue la Settima Arte da tutte le altre.
Non solo, fare film, per il cineasta, equivale inoltre ad una sorta di contrazione (che giunge il punto tensivo massimo, anche a livello compositivo, nell’ultima sequenza a tavola) e di mediazione tra due modelli, due spinte, due formae mentis, due poli d’attrazione, due approcci totalmente diversi alla vita: da un lato, quello pratico, utilitario, pragmatico - che si tramuta poi in freddezza, razionalità, distanza, apatia, afasia, severità - del padre (portato in scena da un sottilissimo e precisissimo Paul Dano), dall’altro invece quello naif, candido, ironico, trasognato, poetico, sensitivo ed ipersensibile della madre (il cui spirito rivive nel corpo di una grandiosa Michelle Williams nella sua miglior prova); quello che Pascoli definirebbe nei termini di "una visione ingenua, meravigliata ed incantata della realtà". Una contrapposizione esistenziale e personale (di nuovo) che Spielberg ha poi tradotto e racconta, in The Fabelmans, sottoforma di massima relativa al proprio cinema, continuamente diviso tra quelli che il critico Emanuele Rauco definisce “senso della meraviglia”, ovvero il lato più tecnico, funzionale, pratico, legato ad un’idea di cinema quale innovazione scientifica e mezzo; e “meraviglia del senso”, più attinente alle emozioni, allo stupore, alla meraviglia, alle sensazioni, a ciò che, di etereo, impalpabile e viscerale, il cinema provoca in noi; dunque, il cinema come linguaggio emotivo, drammaturgico e narrativo.
Ciò detto, quello che rende The Fabelmans un film che soltanto Steven Spielberg avrebbe potuto firmare è la maniera in cui questi riesce a prendere qualcosa di intimo come la storia delle sue ferite, dei suoi primi vent’anni di vita, e porlo su una scala così grande, facendone pur sempre un’opera cinematograficamente interessantissima, inebriante, immersiva nel senso più vero della parola, oltre che universalissima per come riesce a sintetizzare i concetti, le idee, le proprie verità in immagini uniche, magiche, che non tradiscono mai il peso, la fatica o la benché minima presenza di questo lavoro di sublimazione in atto.
Il risultato finale, talmente limpido, chiaro e comprensibile che ogni spiegazione fatta in seguito e in chiusura sembra eccessiva; è nientemeno che l’ennesima dimostrazione che, come diceva qualcuno, “Spielberg è (ancora) tutto il cinema possibile”. Quel cinema che conosce bene l’influsso che ogni comparto ha sul prodotto finito e che, a tal proposito, sa equilibrare perfettamente (e, solo in apparenza, con incredibile facilità) l’apporto di ognuno ai fini del “più grande spettacolo” immaginabile. Alla fotografia, Janusz Kaminski riesce allora nel compito chimerico di trovare luce nel buio e buio nella luce, siglando il proprio capolavoro teorico. Sarah Broshar e Michael Kahn sono, dal canto loro, i firmatari di un montaggio ellittico ed episodico, con profonde venature comico-ironiche, che tiene magistralmente il passo delle avventure dei Fabelmans. Un immancabile John Williams compone invece uno spartito intimo e delicato, che accorpa il lato più giovanile e quello più immaginifico del racconto. Chiudono il tutto le scenografie di Rick Carter, il quale si dimostra capace di dar forma e vita ai luoghi, alle atmosfere, ai sapori, ai colori, alla vita stessa del regista e della sua famiglia.
The Fabelmans è insomma l’ennesima riconferma, rinsaldatura e riaffermazione di un cinema, quello di Spielberg, capace di far convivere insieme linguaggi, stili ed estetiche apparentemente antitetiche, nonché impulsi, intenzioni ed istinti alti e bassi. Che riesce ad essere originale ed appassionante anche quando parla e pensa a partire dal lavoro di altri (lo dimostra banalmente la capacità emotiva che conservano i suoi filmini amatoriali - o meglio, il loro rifacimento filologico -, decisamente derivativi dai film che vedeva allora). Che sa lavorare con gli attori e plasmare le loro prove a tal punto da farli letteralmente scivolare nell’intimo dei suoi personaggi e celarne la natura di interpreti, di semplici ingranaggi di una macchina ben più grande.
Il cinema di una leggenda che si è fatta uomo per noi (e per sé stesso) e che, con The Fabelmans, imprime il suo verbo. Lo stesso di cui sono fatti i sogni, quello della cosiddetta “orizzontalità schermica” di fordiana memoria, quello di un’opera e di un film che sono la massima esegesi e il trionfo definitivo della “scrittura-movimento” - come scriveva Walter Bruno quasi una ventina d’anni fa - e che, non a caso, lasciano proprio al movimento di macchina più sentito e significativo di tutta una vita l’onore e l’onere di sintetizzare cinquant’anni e più di assoluta fede nelle immagini in movimento, nella vertigine e nelle ebbrezze che possono regalare, nelle angosce e nel sollievo che sanno procurare, nelle promesse e nelle disillusioni che innescano, nelle verità e nelle finzioni che custodiscono. Basta sedersi, spalancare gli occhi, vedere (p)e(r) credere. Incondizionatamente.
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