TITOLO ORIGINALE: Dampyr
USCITA ITALIA: 28 ottobre 2022
REGIA: Riccardo Chemello
SCENEGGIATURA: Mauro Boselli, Giovanni Masi, Alberto Ostini, Mauro Uzzeo
GENERE: fantastico, azione, orrore
DURATA: 120 min
L'unico e solo player che ancora sembrava mancare all'appello della corsa alla rifidelizzazione di un pubblico ormai irrimediabilmente esterofilo, Sergio Bonelli Editore, tenta un'avventura editoriale con un suo universo condiviso, adattando per il grande schermo una delle testate "più giovani" della sua ultraottantenne proposta fumettistica. Purtroppo, Dampyr di Riccardo Chemello si rivela essere il frutto di tanta, indiscutibile passione e dedizione, espresse tuttavia con troppo desiderio di omologazione, pochissima personalità e ancor meno consapevolezza di ciò che lo circonda. Cosa che lo porta ad essere anche vertiginosamente meno competitivo di quanto avrebbe potuto.
Periodicamente riproviamo a riscoprire il nostro recondito e a lungo sopito richiamo per il genere puro. Ad emancipare la nostra produzione rispetto ad un suo progressivo e decennale irrigidimento bipolare tra la commedia demente (più che demenziale) e il dramma d’autore o pseudo-autoriale più serioso ed impegnato. Nel farlo, tuttavia, siamo irrimediabilmente costretti a scontrarci con un cinema americano mainstream che ha sfruttato la progressiva perdita di smalto della proposta nazionale per attecchire e convertire ai propri idoli gran parte del pubblico. Ciclicamente riproviamo quindi a batterci sul loro stesso terreno di gioco o, in alternativa, su territori tutti nostri che ciononostante mutuiamo e costruiamo sempre a partire da qualcosa di indefessamente loro e, di nuovo, ben caratterizzato, chiaro e seduttivo all’interno e per l’immaginario popolare; per dar così vita, o meglio, cercare di dare vita ad una nuova proposta popolare, commerciale, fantastica, ad una risposta made in Italy al blockbuster hollywoodiano, talora ambendo addirittura a spingerci verso una sua eventuale serializzazione.
Eppure, eccezion fatta per il riuscito e fortunato Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti (che, ad oggi, rimane però un bagliore autoconclusivo e solitario, senza ulteriori sbocchi narrativi od intenzioni progettuali), c’è sempre qualcosa che ne ha minato le prospettive future, sia esso in termini di qualità e/o di responso delle platee. Le storie - ahinoi - le conosciamo bene, ma è bene ripeterle per completezza.
I due film de Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores (con i loro 20 milioni di euro complessivi) proponevano una visione poco appetibile del filone supereroistico e non hanno fidelizzato il pubblico di giovanissimi a cui erano evidentemente rivolti. Lo sforzo erculeo e kolossale (da 12 milioni), ma infine icariano di Freaks Out, con cui il già citato Mainetti ha tentato di replicare il successo della sua opera prima, attraverso un'ibridazione di estetiche e familiarità tipicamente hollywoodiane, rilette però con occhio italiano, non ha incontrato il supporto del pubblico più generalista, arenandosi su un incasso di neppure tre milioni. La stessa amara sorte - pur con un secondo e terzo capitolo in dirittura d’arrivo - è toccata infine al più recente Diabolik dei Manetti Bros. (11 milioni per un incasso di 2,6), i quali hanno rivisto una grandissima icona del fumetto italiano con una sensibilità forse eccessivamente nicchistica e cinefila per renderlo appetibile alle masse ed una visione troppo filologica rispetto al lavoro delle sorelle Giussani per farne inattaccabile e puro prodotto cinematografico.
Periodicamente ci riproviamo, appunto. Ed oggi, a ben tre anni dall’annuncio ufficiale, a farlo è l’unico e solo player che ancora sembrava mancare all’appello, la nostra Marvel, la più grande macchina editoriale del nostro paese, il più longevo cantastorie dello stivale. Un vero e proprio pozzo interminabile di immaginari che sono riusciti a riscattarsi e a trovare una propria identità rispetto ai loro antesignani d’oltreoceano, personaggi divenuti iconici e sempiterni, racconti che, pur cambiando le penne, mantenendosi nelle consuetudini e facendo leva sull’effetto rassicurante delle serializzazioni autoconclusive e sui confini morali di un netto bianco e nero, sono riusciti e riescono tuttora ad avere sempre una loro indistinguibile unicità, un loro sapore irripetibile.
Stiamo parlando ovviamente della Sergio Bonelli Editore, che, dal 1940 ad oggi, è sempre e comunque riuscita a far sentire la propria voce e la personalità dei propri amatissimi personaggi, a rimanere salda sulle proprie, decennali posizioni, ad affermare il proprio status senza mai essere irreparabilmente travolta dal cambiamento, dagli spostamenti, dai nuovi equilibri, dall’ascesa (prima) dei comics americani e dalla mania (poi e ancora oggi) del fumetto orientale.
Ebbene, quello della casa editrice milanese è senz’altro il progetto editoriale - sia di adattamento, sia di replica blockbuster al predominio americano - più ambizioso tra quelli elencati poco sopra. Un disegno che non solo punta a rifidelizzare il pubblico nostrano rispetto alle sorti del cinema nazionale, ma che, già dal nome scelto Bonelli Cinematic Universe, punta fin da subito ad uscire dai confini italici (forte del supporto produttivo e distributivo di Eagle Pictures) e misurarsi esplicitamente, quantomeno a livello di affermazione di immaginario, con i fratelli maggiori di Hollywood e dintorni ed ineluttabilmente con lo sterminato multiverso Marvel.
Un disegno che inizia adattando per il grande schermo uno dei personaggi “più giovani” dell'ultraottantenne proposta fumettistica, nato nell’aprile del 2000 dalla penna di Mauro Boselli e Maurizio Colombo. Stiamo parlando di Dampyr, alias Harlan Draka, il figlio di un super-vampiro e di una donna umana che, nell’esatto momento in cui viene al mondo, è inevitabilmente destinato ad essere cacciato e a cacciare e uccidere (col potere antidotico del proprio sangue) i vampiri che infestano il nostro mondo.
Aiutato dai più giovani Giovanni Masi, Alberto Ostini e Mauro Uzzeo, Boselli riscrive quindi per il grande schermo quei primi due folgoranti numeri che, ventidue anni fa, diedero il via alla lunga corsa della serie a fumetti che continua ancora oggi. Forse memore del tentativo deludente e fedifrago su commissione di Dylan Dog - Il film, il team di sceneggiatori confeziona una sceneggiatura in tutto e per tutto fedele al materiale di partenza - aspetto, quest’ultimo, che pare riversarsi ed allargarsi, per osmosi, all’intero processo produttivo, soprattutto nel casting, su cui però torneremo tra qualche riga.
Tuttavia, nel fare ciò, Boselli & co. depauperano la propria concezione cinematografica della complessità del linguaggio e del mezzo. In altre parole, trascurano il fatto che il cinema non è il fumetto, anche e soprattutto per una grammatica decisamente più ferrea. Che non basta avere uno stile di scrittura cinematografico per essere tali. Che il cinema utilizza l’azione e il movimento per raccontare. Che è un’arte eccellentemente sottrattiva, fatta di sottotesti e significati che si costruiscono già solo dalla semplice accensione della macchina da presa. Che quella in cui si inquadrano è un tipo di prodotto per cui a dir poco vitale è la capacità di worldbuilding, in cui iconologie ed immaginari devono essere costruiti minuziosamente e non semplicemente abbozzati, tenuti ai margini o lasciati interamente all’immaginazione dello spettatore, specie nel momento in cui ci si lancia in una partita che è anzitutto estetica con i cugini oltreatlantico.
Questo discorso si estende anche al regista Riccardo Chemello, qui alla sua opera prima, che questo copione scritto ad otto mani - dalle uscite spesso fin troppo fumettistiche, didascaliche ed enfatiche, oltre che poco convincente e problematico nell’arco narrativo di presa di consapevolezza di Harlan - lo visualizza, confermando, di conseguenza, il grosso rischio che i produttori Roberto Proia, Vincenzo Sarno, Andrea Sgaravatti si sono presi affidandogli un progetto così grande, importante, oltre che fondamentale per il corso della storia e il benestare del cinema italiano.
Infatti, malgrado un paio di momenti effettivamente gradevoli (concentrati perlopiù nel primo atto) e nonostante il prologo accenni un discorso autoriflessivo sul potere magico ed illusorio del lavoro che il cinema opera sullo spazio, è impossibile, proseguendo ed addentrandosi via via nel mondo di Dampyr, non notare tutte le ingenuità tipiche ed immancabili di un esordio: dall’utilizzo arbitrario e capriccioso di carrelli, dolly e dissolvenze a nero, fino ad arrivare ad una composizione il più delle volte incerta e confusionaria dell'action, in particolare nella gestione del montaggio (un tratto su cui, d’altronde, tutta la produzione nazionale sembra arrancare).
Per non parlare poi di tutte quelle difficoltà innate del progetto che la regia di Chemello non fa che evidenziare, a partire dal casting (eccolo), anch’esso filologico nei confronti della controparte cartacea, a discapito, in questo caso, della statura attoriale, drammatica ed espressiva, che purtroppo rimangono solo volti meramente funzionali, complice una scrittura che, nel lavoro di caratterizzazione, non va al di là del dovere narrativo.
In tal senso, se Wade Briggs, Stuart Martin e Frida Gustavsson sono la scelta visivamente più conforme all’immaginario di partenza, essi - specialmente Briggs e Gustavsson, meno Martin, che si rivela essere, nonostante tutto, uno degli ingredienti più memorabili e meglio oliati della formula - non riescono a reggere sulle proprie spalle le sorti e a restituire la gravitas e la vertigine di un universo in costruzione (però che belli i 36 secondi animati iniziali di presentazione di Bonelli Entertainment), o ancora a non cadere vittime dell’essenzialità della sceneggiatura. Dunque, a rendere credibili e cinematografiche linee di dialogo polverose e proverbiali, e a tratteggiare e donare qualcosa di autentico e riconoscibile ad un intreccio senza particolari stravolgimenti od evoluzioni, di per sé rudimentale, indolente ed indulgente nella sua rigida ed evidente sistemazione, il cui fine è rendere edotto protagonista riguardo a qualcosa che noi spettatori se non sappiamo, quantomeno possiamo intuire fin dalle primissime sequenze. Non c’è neppure bisogno di citare Gorka, il villain interpretato da David Morrissey, talmente piatto, monocorde e insulso che nemmeno il caricato e macchiettistico doppiaggio di Pino Insegno riesce a rendere sopportabile.
Insomma, sembrerebbe venir meno in partenza alla propria responsabilità estetica ed immaginifica il Bonelli Cinematic Universe, le cui mire, quantomeno sul grande schermo, potrebbero essere irrimediabilmente arrestate dal poco fascino ed inventiva (in termini anche di design della componente fantasy) di un prodotto che, pur forte di un cospicuo budget e di una grande produzione alle spalle, si colloca nel mezzo, né potendo definirsi propriamente o talmente brutto da fare il giro e diventare di serie B o trash; né potendo ambire ai requisiti minimi, indossare gli abiti tecnici, fare suoi i discorsi (come quello femminista o pacifista, solo accennati) ed aderire agli orizzonti del cinema più spettacolare, interconnesso e politico della contemporaneità.
Più che l’erede transmediale di quella stessa scommessa che, negli anni ‘40, Sergio Bonelli Editore vinse, con il personaggio di Tex Willer, nei riguardi di uno degli immaginari statunitensi per antonomasia, il western, e che il cinema italiano, nella figura di Sergio Leone e nella rilettura di Per un pugno di dollari, vinse vent’anni più tardi nei confronti dello stesso immaginario, riconquistando il palcoscenico e l’attenzione dei riflettori di tutto il mondo; Dampyr sembra il frutto di tanta, indiscutibile passione e dedizione, espresse tuttavia con troppo desiderio di omologazione, pochissima personalità e ancor meno consapevolezza di ciò che lo circonda. Ossia di un presente cinematografico che non si accontenta più di un film del genere, pur con un'involontaria allure data dal suo essere anacronistico e fuori tempo massimo. Di un pubblico che punisce con l’indifferenza ciò e coloro che sembrano anche solo sottovalutarlo. Questo è solo l’inizio (della fine?).
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