TITOLO ORIGINALE: Amsterdam
USCITA ITALIA: 27 ottobre 2022
USCITA USA: 7 ottobre 2022
REGIA: David O. Russell
SCENEGGIATURA: David O. Russell
GENERE: storico, giallo, commedia, thriller, drammatico
DURATA: 134 min
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Qualcosa dev'essere andato storto prima o durante la lavorazione di Amsterdam, perché nulla (o quasi) funziona davvero. Ma è quasi impossibile capire che cosa e perché di preciso, tra le pieghe di questo mistero indolente, indulgente, prolisso, esuberante, insistente, chiassoso, roboante, magari simpatico sulle prime, ma alla lunga molesto ed insopportabile. Screwball comedy, noir, spy movie, thriller, film socialmente impegnato: quella che imbastisce David O. Russell è un po' la fiera del troppo (che stroppia), oltre che uno smorto red carpet di grandi star fra cui risplende soltanto Christian Bale. Una ferita che Hollywood sarà più che felice di dimenticare.
Qualcosa dev'essere andato storto prima o durante la lavorazione di Amsterdam di David O. Russell. Ma non è così facile capire cosa e, soprattutto, perché, il che è forse la più grande stranezza del progetto. Quali siano le concause, l’insieme di elementi, le alchimie negative che hanno portato ad un risultato così disastroso ed allucinante nella sua inettitudine e sciatteria non ci è dato saperlo con certezza. Ed è forse proprio questo il vero mistero di David O. Russell; uno che, per fascino ed enigmaticità, sovrasta facilmente quello a cui la pellicola vorrebbe farci appassionare. Sì, avete capito bene: quasi nulla, all’interno di Amsterdam, funziona realmente o può ritenersi quantomeno accettabile per gli standard del tipo di cinema blockbuster in cui quest’ultimo si inscrive, o meglio, vorrebbe inscriversi.
Ma la cosa più curiosa di tutta questa strana faccenda è proprio il fatto che stiamo parlando dell’ultimo film di David O. Russell, ossia uno tra i migliori, se non addirittura il miglior mestierante fra quelli oggi impiegati nella macchina hollywoodiana. Uno che conosce perfettamente la vita del set ed ogni tipo di possibile contrattempo ed imprevisto, che raramente esce fuori budget o viene meno ai tempi di consegna di un progetto. Uno, ancora, che sa gestire grandi cast con star impressionanti al loro interno (spesso fra le più pagate del "gioco", come direbbe qualcuno); che per anni, con film come The Fighter, Il lato positivo e American Hustle (ad oggi, il suo lavoro più riuscito, dinamico, divertente), ha flirtato e stuzzicato l’Academy, consolidando l'immaginario di un’attrice come Jennifer Lawrence e tirando fuori l’insospettabile lato comico di un attore preciso e generalmente asservito al dramma più serioso come Christian Bale.
E, neanche a dirlo, è forse proprio Bale - qui di nuovo impiegato nell’esilarante ruolo di tal Burt Berendsen, un medico un po’ toccato che sembra fuoriuscito da una striscia a fumetti, reduce di guerra, mezzo cieco, storto, pieno di cicatrici ripugnanti e con la pettinatura di Jack Nance in Eraserhead - l’inutile toccasana di Amsterdam. O, in altre parole, l’unica variabile, in questa macchina farraginosa (di cui si sente fin troppo il ferraginare, il rumore, caotico ed irregolare, degli ingranaggi), a fornire un contributo attivo ad un’eventuale, ma impossibile riuscita del progetto.
Da lui, prende il via tutta la vicenda - un po’ vera, un po’ ripassata al vaglio della finzione -, ossia la scoperta, da parte di un trio di amici (uniti dalla tragedia del primo conflitto mondiale), di una cospirazione che, negli Stati Uniti dei primi anni ‘30, ancora indelebilmente segnati dalla Grande Depressione; punta a sostituire un presidente Roosevelt cagionevole e molto debole, con un dittatore scelto dall'élite, che porti avanti un disegno politico sulla falsariga di quello di Mussolini e Hitler in Europa.
Ed è sempre su di lui, su Bale, che si costruisce inoltre tutto l’impianto fotografico di un ispirato (per quel che vale) Emmanuel Lubezki, che asseconda la pregiata (questa sì!) ricostruzione storica, le sontuose e ricchissime scenografie di Patricia Cuccia ed Erin Fite, e il carattere fortemente grottesco e non-sense del copione dello stesso O. Russell, conferendo alle immagini una patina fortemente pop, fumettistica, spesso addirittura cartoonesca.
Peccato che, laddove Christian Bale dimostri effettivamente una sintonia ed un lavoro di concerto con la messa in scena e il palcoscenico allestito da Lubezki, gli altri due membri del trio protagonista, vale a dire l’avvocato afroamericano di John David Washington e l’infermiera, con una strana passione per il recupero e il riciclo dei cimeli e dei rifiuti di guerra, interpretata da Margot Robbie, così come il resto dei volti di questa dissipativa, eccessiva e parossistica sfilata di stelle non riescano ad imprimere qualcosa di realmente personale ai propri personaggi, anzi scomparendo e venendo inghiottiti da questo miscuglio informe ed omogeneo. Infatti: Washington appare troppo spigoloso, Robbie troppo conforme ed adesa ad altri suoi ruoli più noti e riconoscibili, Rami Malek troppo stralunato e poco ambiguo, Robert De Niro e Michael Shannon eccessivamente indifferenti, Anya Taylor-Joy poco pruriginosa ed inespressiva, Chris Rock e Taylor Swift troppo futili e Zoe Saldana freddissima.
(Non solo un red carpet sgarbato, ma) è un po’ la fiera del troppo, Amsterdam. Eppure nelle sue intenzioni è quanto di più semplice, chiaro, comprensibile: a partire dall'assunto che "la storia ripete sempre sé stessa", produrre un’opera militante anti-trumpiana, anti-populista ed anti-fascista, ricordando, rinarrando e ponendo di fronte all’obiettivo (pardon per le ripetizioni, ma sono volute) una storia americana di tradimento degli ideali americani, da parte di pezzi grossi del sistema industriale americano, ma anche e soprattutto di resistenza, redenzione e sollevamento di un’altra America, vaticinata dai fool shakespeariani, innocenti portatori di verità (com’è, per esempio, il dottor Berendsen), e fondata sulla fratellanza e l’uguaglianza.
Una Storia - che diventa storia - incredibile e dai risvolti inquietanti, poiché ridefinitivi (qualora tale cospirazione avesse avuto successo) di gran parte della storia del Novecento e forse del nostro presente, che parrebbe quasi frutto della fantasia ucronica e distopica di Phillip K. Dick. Un intrigo internazionale di matrice hitchcockiana che ciononostante perde tutta la sua verve comica, tutto il senso del pericolo collettivo ed individuale, e la suspense relativa agli esiti del contromossa del trio, tutto il suo ritmo (generalmente mandatorio per uno spy movie che si mischia con la detective story), sotto il peso delle proprie smisurate ambizioni, di suddetto grande cast, ma soprattutto sotto l’egida di un’impalcatura che, nel suo voler essere insieme commerciale, alternativa, eclettica, bizzarra, fluida, accattivante e sorprendente, finisce per perdere qualsivoglia sapore.
A metà tra l’esuberante arte digressiva, l’esplosione post-modernista e l’iperdettagliamento ai limiti dell’autistico di Wes Anderson, ed un approccio allo storytelling stile Wunderkammer (senza però nulla di realmente meraviglioso), Amsterdam è, al contempo, screwball comedy, film spionistico, noir alla Chinatown, giallo, racconto sentimentale di un ménage-a-trois truffautiano, film colto e raffinato a tal punto di riprendere l’arte dei surrealisti Salvador Dalì e Man Ray, ed infine (ovviamente) pellicola di impegno e denuncia socio-politica, con tanto di discorsone finale e filippica moralistica sull’importanza della libertà e dell’amore (anche politico) come scelta e non per necessità.
Peccato soltanto che, come screwball non possieda il ritmo, la genialità e la composizione adeguati, come spy movie e giallo metta in scena forse uno dei peggiori twist, uno tra i disvelamenti più didascalici e disastrosi mai visti, schivi la fase di detection per un’ora intera (preferendo invece divagare, parlando di tassidermia) e proceda in caduta libera fino ad un finale fuori dalla grazia del cinema; come noir non disponga del necessario chiaroscuro, come rom-com i personaggi - al di fuori forse di quello di Bale - pecchino di poca simpatia, calore amicale, di verità, con dialoghi che tradiscono un’improbabile matrice letteraria; ed infine come film impegnato ed esteticamente sofisticato abbia poco e nulla, dimostrando peraltro pochissima fiducia nel proprio pubblico e nelle sue basilari capacità di comprensione dell’intreccio e dei diversi risvolti della storia, tra ripetizioni continue della stessa informazione, spiegoni a profusione e riepiloghi ad ogni nuovo punto di svolta.
Nella pellicola, si parla e parla e parla, a tal punto che le voci, gli stimoli, gli echi, le diverse indoli arrivano a sovrapporsi, a confondersi, a divenire di uguale importanza nell’economia della rappresentazione. Eppure, definire Amsterdam fluviale equivarrebbe a fargli un complimento che probabilmente non merita. Rende meglio e forse è pure più giusta l’idea di una pellicola che non sembra credere nell’arte del racconto per immagini e che dunque pare più attinente ad un audiolibro o ad un radiodramma di due ore e dieci. O magari, ancor più forte ed efficace è l’immagine di un ubriaco insistente, chiassoso, roboante, magari simpatico sulle prime, ma alla lunga molesto ed insopportabile, che cammina e si dimena sul posto senza nemmeno sapere perché. O ancora, di Hollywood fornisce a David O. Russell le chiavi della sua auto migliore e maggiormente accessoriata, ma questi ci si schianta, salvando giusto una parte della carrozzeria.
Metafore a parte, se l’arte, come dice qualcuno durante il dipanarsi di questo mistero che, nel suo iperfocalismo nevrotico, nel suo ritenere tutto importante, nel suo considerare tutto allo stesso modo, deprezza tutto, diventa indolente ed indulgente, ottenendo in fondo ben poco, quasi nulla; “è bella, adorabile, evocativa”, allora Amsterdam è il suo contrario. E se l’arte, insieme all’amore, “è tutto ciò che conta”, di Amsterdam faremo volentieri a meno.
Una cosa è certa: Amsterdam, parafrasando Berendsen, è una ferita che il cinema e l'industria statunitensi saranno più che felici di dimenticare.
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