TITOLO ORIGINALE: Brado
USCITA ITALIA: 20 ottobre 2022
REGIA: Kim Rossi Stuart
SCENEGGIATURA: Kim Rossi Stuart, Massimo Gaudioso
GENERE: drammatico, western
Giunto al suo terzo film da regista, Kim Rossi Stuart continua la storia archetipica di Renato e Tommaso e prosegue (o forse chiude) così il suo discorso su una paternità complessa, ostica, instabile, sfuggente. Questa volta, però, visto attraverso il respiro e gli occhi di un western esistenzialista e spirituale.
Inizia con un impasto, una stesa, una tavolozza di colore blu e finisce con una cavalcata nel blu suggestivo e silenzioso della notte, Brado, il terzo film scritto, diretto ed interpretato da Kim Rossi Stuart. Inizia e finisce, non a caso, col colore della grande profondità, la stessa che contraddistingue il rapporto padre e figlio che vedremo sviscerato e riesumato nel corso dell’opera. Ma anche col colore della calma, dell'infinito, della pace, della serenità emotiva e dell'armonia; insomma, tutto quello che i due protagonisti: appunto, questo padre facinoroso, imprevedibile, testardo, misogino, spietato, truce, spigoloso, sciancato, traballante, in lenta autodistruzione, eppure capace, a volte, di sprigionare e lasciar intravedere una fragilità ed una sensibilità quasi commoventi, e questo figlio, che invece prova risentimento, rabbia, frustrazione nei confronti di un’infanzia segnata da episodi ed esperienze di rara crudeltà e violenza; tenteranno di rincorrere, rimodulare, ricostruire per tutta la durata del racconto.
Con Brado, Kim Rossi Stuart aggiunge un ulteriore tassello, un’altra variazione alla storia di Renato e Tommaso, personaggi aventi gli stessi nomi e le medesime caratterizzazioni di film in film, ma ogni volta definiti da storie personali sempre diverse - oltre che da volti nuovi nel caso di Tommaso -; e continua (o forse chiude) il proprio discorso su una genitorialità complessa, ostica, instabile, sfuggente, sublimando ed adoperando il mezzo cinematografico per rappresentare e così affrontare, esorcizzare, venire a patti, fare pace con il fantasma del padre Giacomo, scomparso 25 anni fa, a cui il film è, questa volta, esplicitamente dedicato.
Tuttavia, a differenza del rabbioso e viscerale Anche libero va bene e del più intimista, ambizioso, ma infine fallace Tommaso, in Brado il conflitto, le rimostranze, le delusioni, i chiarimenti, le schermaglie più o meno giocose, le verità urlate in faccia vengono viste attraverso il respiro e gli occhi del genere, di un western esistenzialista e spirituale. Stuart sceglie pertanto i panni, lo stile, il portamento, il contegno, il rigore, la grazia, la penetrazione dello sguardo di Clint Eastwood, diventando a sua volta quasi un Eastwood de noantri o - per citare il copione che il regista firma assieme a Massimo Gaudioso - “dei poveri”, ed andando, in questo modo, alla ricerca della purezza, della genuinità, dell’universalità di temi, personaggi, sentimenti.
Assistito da Matteo Cocco in fotografia, il cineasta utilizza una caratteristica tipica del western, ovvero la centralità dello spazio (più precisamente, di una campagna laziale invernale, brulla, sudicia, eppure suggestiva e pittorica, filmata come se facesse parte dell’America’s Heartland), per definire distanze, tracciare rapporti, raccontare stati d’animo, trasmettere e suggerire stralci di vita vissuta, ma anche evidenziare e mostrare l’inezia della figura umana, dei suoi problemi e delle sue intenzioni nei confronti del grandezza del creato. Dell’inesorabile ed imprescindibile fluire delle cose. Della tragica poesia della natura, di cui il cavallo diventa un simbolo, un vettore di significato. Quella stessa natura che, per quanto la si trattenga, trova sempre il modo per spandersi ed erompere inaspettatamente, nel bene e nel male.
Per quanto infatti l’uomo o, in questo caso, Renato - il padre interpretato da un meraviglioso e sempre magnetico Kim Rossi Stuart - tenti di controllare, montare, cavalcare e decidere di ogni singola variabile di ciò che lo circonda (da suo figlio, fino, addirittura, alla vita e alla morte degli animali del proprio ranch), prima convertendosi in un eremita ed isolandosi da tutto e da tutti, poi arrivando quasi a considerarsi alla stregua di Dio, egli non potrà che finire sbalzato di sella, perdere le redini della propria vita, venire travolto dal tempo che passa, corrompe, uccide, rispondere ed obbedire alla chiamata di un altro Padre. Uno a lungo disdegnato, combattuto, disconosciuto.
Nasce da qui un film inatteso ed imprevedibile nella sua prevedibilità da dramma italiano carattero-centrico ed insieme da racconto sportivo (di cui segue alla lettera tutti i passaggi). Prevedibilità, quest’ultima, tuttavia sempre mitigata e compensata dalla giustezza delle proprie interpretazioni, come, ad esempio, quella di Saul Nanni, che migliora e risulta più convincente e credibile man mano che si procede nel racconto, o dell’esordiente Viola Sofia Betti, in grado di tener testa allo stesso Rossi Stuart in più di un’occasione.
Un'opera di confine e confini in cui l'attore capitolino dimostra finalmente una prima, piena consapevolezza e padronanza fluida e disinibita del mezzo, che impiega in maniera semplice, funzionale, compositivamente sistematica e drammaturgicamente classica, per penetrare, sfiorare e lasciar intravedere il nocciolo duro, l'essenzialità delle cose e del proprio discorso, liberandosi - pur optando talora per scelte estetiche e di scrittura da tipico film indie statunitense - di tutte le tentazioni, di tutte le deviazioni onanistiche, di artifici, orpelli o fingimenti di sorta che avrebbero finito per traviare od oscurare il profondo carico umano della vicenda e della sua messa in scena.
Brado è dunque una pellicola che racconta, come sempre avviene nella grande epopea western, la storia di una grande illusione. L’illusione di un mondo nuovo, di un modo nuovo. Del libero arbitrio. Della transitorietà. Dell’avvenire. Di una paternità, fisica e spirituale, che potenzia rendendo impotenti, che alleva degenerando a sua volta, che soffoca per dare fiato, che ama odiando(si), che comincia finendo(si).
Un modello di genitorialità che, nel nostro paese, solo Kim Rossi Stuart sa raccontare in questo modo, con delicata crudeltà, senza mai eccedere, risultare inutilmente lacrimevole o manipolatorio, o ancora cadere nella tentazione dello choc sterile, della provocazione spettatoriale fine a sé stessa. Un’ottima prova di maturità dal respiro (per una volta) realmente internazionale, che cavalca le lande desolate di un cinema - quello nostrano - che ha solo che bisogno di voci del genere, capaci di inserirsi all’interno della tradizione drammatica italiana, per poi stravolgerla, cambiarla, ridefinirla, rianimarla dall’interno, portandola verso orizzonti di grande vitalità e forza espressiva.
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