TITOLO ORIGINALE: Pahanhautoja
USCITA ITALIA: 6 ottobre 2022
USCITA USA: 6 maggio 2022
REGIA: Hanna Bergholm
SCENEGGIATURA: Ilja Rautsi
GENERE: horror
Presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2022
La finlandese Hanna Bergholm fa il suo esordio al lungometraggio con Hatching, un horror sulle mutazioni del corpo, su creature sovrannaturali e su doppelgänger che smascherano ed incarnano il male che si cela dietro l'apparentemente perfetta facciata di una famiglia borghese. Ma bastano l'atmosfera sospesa e lo straniamento tipico del cinema di Lanthimos, il sapore folcloristico dei film di Robin Hardy e Terence Fisher, un certo gusto body-gore horror anni ‘70-‘80 e l’incontro ravvicinato alla base di E.T., a fare di Hatching un'opera prima convincente?
Quello che vuole essere e di cui intende parlare Hatching, l’esordio alla regia cinematografica della finlandese Hanna Bergholm, lo si capisce sin dai primissimi momenti.
Infatti, in questo connubio - anch'esso istantaneamente evidente - tra il cinema di Yorgos Lanthimos (nell’atmosfera sospesa, nelle tematiche, nella resa occludente degli ambienti, nell’estetica straniante e perturbante, nella direzione degli attori), il sapore folcloristico dei film di Robin Hardy e Terence Fisher, un certo gusto body-gore horror anni ‘70-‘80 (a partire dalla letteratura di King, Masterton e Koontz, fino ad arrivare ad Alien, L’esorcista e a tutta l’iconografia cronenberghiana) e l’incontro ravvicinato alla base di E.T.; si capisce subito (forse fin troppo) quanto l’attenzione, tanto del copione di Ilja Rautsi, quanto, di conseguenza, della messa in scena di Bergholm, sia rivolta solo ed esclusivamente al disvelamento del male che si cela dietro la perfetta facciata di una famiglia borghese, e alla sua lenta distruzione e decomposizione, a seguito dell’intromissione ed invasione di un agente esterno, alieno, soprannaturale, pericoloso.
L’imperfezione, il fallimento, la delusione sono quanto di più male possa esistere in questo mondo per la madre della dodicenne Tinja, centro gravitazionale dell’ambiente familiare, gerente e garante dei suoi equilibri e delle sue dinamiche interne, carnefice, giudice, giuria e boia dei destini, delle psicologie e dell’esistenza stessa dei suoi componenti. Una donna irreparabilmente segnata da una trauma di gioventù di cui porta ancora le cicatrici (che ricordano stranamente Crash di Cronenberg), scopertasi influencer e vlogger, compagna apertamente fedifraga di un uomo inetto, vuoto, che tratta alla stregua (dunque sminuendolo, escludendo, ignorandolo) del suo altro figlio. Una persona tanto determinata e sicura di sé, quanto opprimente, repellente, severa, algida, spietata ed instabile.
Sarà lei, nella prima sequenza del film, ad uccidere il corvo-madre biologica della strana creatura scheletrica con le sembianze di uccellino, che la piccola Tinja accudirà - stringendoci un rapporto ambiguo, indicibile, eppure simbiotico, gemellare, corporeo - e che finirà poi per stravolgere la delicata quotidianità di questa famiglia, privandola della maschera bianca, pura, delle proprie finzioni, della propria presunta perfezione, e diventando così la mostruosa e camaleontica incarnazione di tutta la repressione, la sofferenza, il dolore, la fragilità che hanno covato, per anni, in silenzio al suo interno. Non a caso, per l’edizione italiana, si è scelto come sottotitolo (di per sé didascalico, ma tant’è) La forma del male. Un male più terreno, ordinario e quotidiano di quel che si possa pensare o temere, e che trova i suoi semi nell’instabilità, nella precarietà, nella problematicità di entrambe le figure genitoriali: nel distacco, nella codardia e nella meschinità di quella paterna, e, per l’appunto, nella brutalità, nell’indeterminatezza e nell’indecifrabilità di quella materna.
Peccato che, al di là di questa suo spasmodica e sola attenzione per la costruzione dei personaggi e per il racconto dei diversi tipi di rapporto che abitano e animano questa famiglia, così come di qualche spunto allegorico effettivamente interessante (come la lenta omologazione e mimesi fisica di Tinja con la madre, e del fratello con il padre, quasi ad esprimere la fagocitazione operata da una genitorialità guasta ed aleatoria); sotto il profilo meramente horrorifico, Hatching possa definirsi un tentativo tutt’al più corretto, ordinario, scolastico, privo dunque di quel guizzo, di quel quid aggiunto, che avrebbe potuto innescare l’eventuale fascino e coinvolgimento dello spettatore nella storia che si viene sviscerata e nell’altra, fintamente sottintesa e sotterranea, che viene invece “eviscerata”.
Dal canto suo, la regia di Bergholm si dimostra infatti fin troppo piatta e proverbiale, non riuscendo a stare al passo con i ritmi serrati e il momentum più prettamente horror, e preferendo, per questo motivo, un’atmosfera sempre (ed eccessivamente) sospesa, che, eccezion fatta per qualche sano momento gore e qualche scelta involontariamente trash, non riesce ad instillare quell’inquietudine, quel terrore e quel raccapriccio che tanto avrebbero giovato ad un copione, per contro, dalle finalità e dai simbolismi fin troppo evidenti, spesso iperbolico e accentuato fino all’inverosimile nella scrittura dei personaggi, distrutto nelle finalità di tono ed atmosfera dai risvolti ed espedienti implausibili dell’intreccio (si pensi, ad esempio, a quante volte Tero, il padre o la madre scambiano la creatura con Tinja).
Infine, quegli stessi spunti interessanti - che avrebbero potuto fare di Hatching un inserto felice nell’interminabile rapporto che il cinema horror ha intrattenuto ed intrattiene con la figura materna - non vengono approfonditi più di tanto od impiegati realmente per dar vita ad un discorso realmente compiuto ed impattante nell’economia del film. Al contrario, in questo suo puntare evidentemente alla prima fascia, alla serie A, alle selezioni festivaliere, Hatching - complice anche una recitazione non sempre soddisfacente - finisce, per contro, incastrato nel limbo di un B-movie che non pratica neppure con così tanta grazia e divertimento.
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