TITOLO ORIGINALE: Moonage Daydream
USCITA ITALIA: 26 settembre 2022
REGIA: Brett Morgen
SCENEGGIATURA: Brett Morgen
GENERE: documentario, musicale
Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2022
Dopo l'inconcludente Cobain: Montage of Heck, Brett Morgen racconta un'altra icona della musica, un altro grande genio del Novecento in Moonage Daydream. Nel tentare di cercare il senso di un mito, la soluzione del mistero profondo di un’entità sempre aliena, unica ed indefinibile del panorama artistico e musicale tout court, il regista dà vita ad un’esperienza immersiva, psichedelica, caleidoscopica, dirompente, abbagliante, esaltante, fluviale, densissima, in cui è consigliato, se non addirittura mandatorio perdersi. Il racconto di un cambiamento, di una lenta trasformazione, di una progressiva metamorfosi fa di Moonage Daydream forse l'unico film a lui dedicato che Bowie avrebbe riconosciuto. Ciò nonostante, alla base dell'operazione di Morgen, vi è un cortocircuito (talora autoassolutorio) di intenzioni, pensieri ed ossessioni tra rappresentazione e rappresentato, tra materia filmica e materia bowiana, che rischia di farne crollare il castello semantico sotto ciò che paradossalmente la rende unica ed irripetibile.
Chi è, o meglio, chi è stato David Bowie? Un artista poliedrico, eclettico, instancabile, trasformista, camaleontico, forse assoluto. Un genio irripetibile e anomalo della musica (e non solo). Un intrattenitore senza pari. Uno dei volti e delle personalità più magnetiche, indecifrabili dell’immaginario collettivo. La voce di una delle più grandi rivoluzioni di tutto il Novecento. L’eccezione a tutte le regole.
Va bene, ma al di là di quello che potreste leggere anche solo digitando il suo nome in un qualsiasi motore di ricerca, chi o cos'era davvero(!) David Bowie, da dove veniva? Era un essere soprannaturale? Una farsa? Un uomo? Una donna? Un robot? È questo quello che si chiede uno speaker in uno dei passaggi di Moonage Daydream di Brett Morgen (già regista dell’inconcludente Cobain: Montage of Heck), che, proprio a partire da questa serie di domande, si mette alla ricerca dell’essenza, della verità, del vero volto dell’uomo dietro le numerose maschere, incarnazioni e personaggi che ne hanno delineato e scandito la carriera, l’opera ed inevitabilmente la vita.
È la ricerca del senso di un mito, del mistero profondo di un’entità sempre aliena, unica ed indefinibile del panorama artistico e musicale tout court, ad animare le alchimie, le suggestioni, le giustapposizioni sperimentali, proposte da Morgen, di immagini sotto i riflettori e filmati dietro le quinte (selezionati in mezzo ad una vastità disarmante di materiale, in parte pure inedito, messo a disposizione dalla stessa famiglia Bowie), musica (tratta da esibizioni live più o meno note), fotografie, quadri, interviste (con un tono tra lo sprezzante, il sensazionalistico e il paternalistico, eppure animate da una fascinazione irreprimibile, da una curiosità quasi morbosa, dalla ricerca di un dettaglio in più per decifrare il rebus David Bowie), estratti di film che lo vedono come protagonista, così come di pietre miliari della storia del cinema (da capolavori del cinema muto, come Viaggio nella Luna di Méliès, Il gabinetto del dottor Caligari di Wiene, Nosferatu di Murnau e Metropolis di Lang, passando per Un chien andalou, Il mago di Oz, Fantasia e Il settimo sigillo, fino ad arrivare a 2001: Odissea nello spazio e Arancia Meccanica); e, di conseguenza, ad informare ed indirizzare l’esperienza spettatoriale. E, mai come in questo caso, non trattandosi di un documentario biografico in senso stretto, è bene parlare, ancor prima che di un’agiografia ricchissima, magniloquente ed ossessiva, di un’esperienza immersiva, psichedelica, caleidoscopica, dirompente, abbagliante, esaltante, fluviale, densissima, in cui è consigliato, se non addirittura mandatorio perdersi.
Quello stesso stimolo ed istinto di ricerca, al contrario, Bowie lo rivolgeva, attraverso il suo lavoro artistico versatilissimo e multiforme, verso l’esplorazione del caotico mondo là fuori e del labirintico micro universo dentro di sé, del senso e delle ragioni che si celano dietro le cose, di un posto (esistenziale, oltre che creativo) che gli piacesse, delle zone oscure della vita di tutti i giorni, di tutte le possibili implicazioni e manifestazioni di sé e del proprio immaginario, di quel mistero e di un’esistenza più profonda.
Il tutto, al fine ultimo di colmare quel vuoto dentro di noi, lasciato dalla morte di Dio e dal disordine che questa notizia ha provocato nell’uomo del Novecento, il quale ha poi trovato rifugio ed un valido sostituto nella figura della rockstar. Quest’ultima, un involucro vacuo, una continua sperimentazione e riformulazione del concetto di Superuomo nietzschiano, una figura proteiforme e versatile (anche in termini sessuali), un immaginario riflettente che si limita a proiettare le illusioni di chi osserva, brama, adora, idolatra, imita (“Volevo vederlo” piangerà qualcuno; “Qual è la tua fantasia? Oh, Bowie” si dirà ad un certo punto).
Non a caso, Moonage Daydream inizia con una citazione dell’artista in cui questi afferma chiaramente la propria vicinanza ideologica e la parentela della propria produzione artistica con il pensiero del filosofo tedesco, già presente - come molti cultori e studiosi bowiani hanno brillantemente fatto notare - nelle sue prime incarnazioni e nei suoi primi lavori. Lo stesso Ziggy Stardust altro non è che un Superuomo dionisiaco, un essere capace di scatenare l’impulso vitale, superando le censure e le regole imposte dalla società sino a raggiungere uno stato di ebbrezza e totale libertà; un'entità sessualmente ambigua, che trascende i generi maschile/femminile e rappresenta così la totale libertà dionisiaca della mente e del corpo in un’epoca di grande repressione; il messia che viene ad annunciare la venuta di esseri spaziali che libereranno i terrestri mentalmente e fisicamente.
Pertanto, il Bowie che fuoriesce con maggior prepotenza da questo non-documentario di quasi due ore e venti di durata è il filosofo, l’aforista, ma anche paradossalmente l’uomo che si guarda allo specchio e si accorge di avere qualcuno o qualcosa alle spalle. Colui che guarda quel vuoto dentro di sé e si interroga su come le esperienze biografiche, la propria percezione del fluire delle cose, del tempo, della storia, dell’arte, ma anche le scelte estetiche, creative ed esistenziali che ha intrapreso durante la sua vita artistica (un punto di incontro tra l’uomo e il performer), i richiami e le voci interiori, ancestrali, anche inquietanti e pericolose, che ha assecondato, i percorsi che ha intrapreso in questo suo viaggio alla ricerca del senso, lo abbiano intaccato, trasformato, cambiato.
Ed è proprio il racconto di un cambiamento - non solo concetto centrale di uno dei suoi capolavori, ma possibile chiave d’accesso al vero mistero di David Bowie - che Brett Morgen vuole di mettere in scena, affrontare, stimolare, scomporre e ricomporre, affrontare secondo vie secondarie, nuove, imprevedibili, "flirtando con i video". Il racconto della lenta trasformazione - in simbiosi e connivenza con la sua opera - di una personalità avversa, turbata, intimorita dalla monotonia; di un “collezionista” ed un filosofo del miscuglio, come spesso gli piaceva definirsi; di un’icona paradossale, ambigua, mai realmente definita e definitiva, proiettata verso un’alterità, insieme fuori e dentro il proprio tempo, ricettacolo e sintesi delle spinte, delle tensioni, della complessità, delle pulsioni, della storia e dell’arte del Novecento, ma anche precorritrice di interessi, stimoli, temi e attenzioni dell’oggi (tra universi alternativi, alter ego, identità fluide, un’ipertestualità disarmante, frammentata, eppure controllatissima).
Ma anche il racconto della progressiva presa di consapevolezza, a cavallo tra anni ‘70 e ‘80, rispetto alla propria natura di intrattenitore, alla missione più naturale, ma anche più funzionale della propria musica (che si carica così di un’aura positiva, ottimista, ma anche commerciale e nazionalpopolare), o anche solo al bisogno di quella vita amorosa e familiare da tempo rifiutata (forse perché portatrice di una sofferenza da mascherare, occultare, silenziare nello spettacolo).
Dunque, il racconto del riconoscimento di una solitudine, prima complice creativa, poi fantasma di una transitorietà spaventosa che si può scacciare, soffocare, lenire, continuando a camminare, spingendosi sempre più oltre, cercando in continuazione qualcosa di eccitante, esaltante, incerto, nuovo.
Ebbene, nel dare un senso, una logica, ma anche nuove prospettive di significato all’immenso vortice di frammenti di questa grande avventura, Brett Morgen dà vita ad un cortocircuito (talora autoassolutorio) di intenzioni, pensieri ed ossessioni tra rappresentazione e rappresentato, tra materia filmica e materia bowiana, dimostrandosi estremamente accondiscendente, conforme, forse fin troppo devoto a Bowie, alla propria filosofia artistica ed esistenziale, alla poliedricità e molteplicità della propria figura, nonché al turbinio di pensieri che arrivano a riempire, saturare, subissare il tessuto dell’opera, fin quasi ad un punto di rottura.
Moonage Daydream è una pellicola che, in più di un’occasione, cade vittima di ciò che la rende unica. Da un lato, dunque, qualcosa di mai visto, di nuovo, esaltante, vorticoso, sorprendente, forse l’unico film a lui dedicato che Bowie avrebbe mai riconosciuto, un viaggio imperdibile, affascinante, ipnotico nel dedalo della mente di un grande del Novecento; dall’altro, un happening, un’esibizione di performance art, un lunghissimo videoclip, un flusso di coscienza sovrabbondante, le cui proporzioni, ambizioni ed eccessiva libertà finiscono per disorientare lo stesso Morgen, estremamente altalenante, talora ovvio, proverbiale e ripetitivo in alcune delle sue epifanie, nelle correlazioni e costruzioni semantiche che suggerisce o negli indizi che affida allo spettatore per trovare la propria verità riguardo al mistero profondo di David Bowie. Che ancora resta e sempre resterà. Dietro un'eterna maschera. Nel cuore irraggiungibile del suo labirinto.
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