TITOLO ORIGINALE: Don't Worry Darling
REGIA: Olivia Wilde
SCENEGGIATURA: Katie Silberman
GENERE: drammatico, horror, thriller
Presentato fuori concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Tre anni dopo il suo esordio registico con La rivincita delle sfigate, Olivia Wilde torna a dirigere e lo fa nel segno del thriller psicologico. Ambientato in una comunità fuoriuscita direttamente dagli anni ‘50, Don’t Worry Darling mette insieme Florence Pugh e Harry Styles per un racconto che sembra provare in ogni modo ad essere quanto più scontato e sciocco possibile. Uno che pare sottovalutare il proprio pubblico. Un film così blando, inconsapevole di ciò che lo circonda, anacronistico ed insieme convinto e serio rispetto a ciò che predica e che intende fare, da suscitare quasi tenerezza.
Negli ultimi venti, trent’anni, abbiamo visto moltissime storie ambientate o che hanno utilizzato e rivisitato, in chiave politica e polemica, l’America degli anni ‘50 e la sua estetica, spesso trasformandoli in realtà parallele con cui sceneggiatori e registi hanno potuto parlare di ciò che è, attraverso ciò che è stato. Una rappresentazione e riproposizione dunque lontana dai Grease, American Graffiti e Ritorno al futuro, dai valori e dalle promesse del Sogno Americano, e più focalizzata sulla messa in mostra dell’ipocrisia, di un perbenismo radicato, di un soffocante maschilismo, di un individualismo competitivo ed infantile e di una sopraffazione dilagante nei rapporti e negli scambi tra i sessi. Lo hanno fatto film come La donna perfetta di Frank Oz (che, a sua volta, è il remake de La fabbrica delle mogli di Bryan Forbes). Ma anche serie come La fantastica Mrs. Maisel e, seppur in maniera più superficiale, funzionale ed epidermica, la recente WandaVision.
Ebbene, oggi a questo elenco si unisce anche Don’t Worry Darling, seconda regia di Olivia Wilde, la quale, tre anni dopo l’esordio con l’esilarante commedia adolescenziale La rivincita delle sfigate, decide di esplorare un territorio sicuramente non immediato e decisamente più impervio e periglioso: quello del thriller/horror psicologico.
La pellicola racconta la storia di Alice e Jack, una coppia fresca fresca di matrimonio che vive in una comunità dispersa nel deserto chiamata Victory. Un posto apparentemente perfetto, all’insegna dell’ordine e dell’equilibrio, in cui tutto e tutti si muovono all’unisono verso un(o sconosciuto) obiettivo comune. Un “piccolo paradiso terrestre", guidato da un misterioso santone di nome Frank, nel quale le mogli devono essere discrete, obbedienti e molto pazienti, e stare a casa tutto il giorno salvo qualche ritrovo più mondano con le amiche per andare in piscina o a fare shopping) per pulire, stirare, cucinare e preparare l’accoglienza ai mariti di ritorno da una lunga giornata di lavoro. Tutto è impeccabile, pulito, perfetto, troppo perfetto, tant’è che qualcuno, forse la stessa Alice, inizierà a farsi tutta una di domande (domande che nessuno fa, o meglio, può fare) su che cosa sia, in realtà, Victory; su quale sia davvero il lavoro del suo e di tutti gli altri mariti, e, in particolare, perché abbia scelto di trasferirsi lì…
Già solo a leggere queste poche righe di sinossi (o anche solo a vedere il trailer), avrete facilmente intuito che tipo di film è Don’t Worry Darling. Uno di quelli in cui “nulla è come sembra”, e dove un personaggio, quasi sempre il protagonista, inizia ad avere qualche sospetto sulla natura del proprio mondo, sul quale inizia ad indagare, scoprendone lati oscuri e tremende verità. Ecco, accortosi dell’ordinarietà e prevedibilità del soggetto di una pellicola del genere, un regista qualsiasi - anche uno alle prime armi - farebbe di tutto per renderlo meno proverbiale e così prendere in contropiede un pubblico (specie nel caso di quello odierno) estremamente smaliziato. Tutti lo farebbero, tranne Olivia Wilde, che invece produce e dirige un racconto che sembra provare in ogni modo ad essere quanto più scontato e sciocco possibile. Uno che si accontenta dell’espediente e della soluzione meno impegnativa e difficile, per mandare avanti una vicenda oziosa, ridondante e, alla lunga, soporifera. Un racconto che - salvo un twist che arriva troppo tardi ed è messo in scena in modo piattissimo - procede indolente nello sviluppo di un intreccio che vorrebbe vivere di mistero, atmosfere, dettagli, indizi e (facili) allegorie, ma che si scontra con un’impalcatura filmica che vuole avere tutto subito, senza impegnarsi più di tanto, a basso costo, in maniera abbastanza puerile, annullando, di conseguenza, la goffissima virata action dell’ultima mezz’ora. Una forma di risparmio, quest’ultima, che è quasi un eufemismo per una produzione blockbuster multimilionaria che può permettersi tutto - anche uno dei più grandi volti dell’odierno panorama musicale -, ma che, tra le sue priorità, non sembra contare una buona scrittura, o quantomeno, una che non sottovaluti e sminuisca il proprio pubblico.
Questa mediocrità compositiva ed immaginifica, oltre che sul mero storytelling, si va ad abbattere inevitabilmente sul comparto discorsivo del progetto - il quale, oltre ad una copia, al limite del plagio, del succitato film di Frank Oz, si rivela essere il “fratello scemo” di Una donna promettente; uno dei più manichei, retorici, moralistici ed inutili visti negli ultimi tempi -, così come sulle interpretazioni di un cast pure interessante. Un collettivo, di cui citiamo, ovviamente, una Florence Pugh che Wilde incatena allo stereotipo di Midsommar, un Harry Styles ottimo solo(!) per le sezioni di racconto a Victory, un Chris Pine poco incisivo, la stessa, funzionale, Olivia Wilde ed una Gemma Chan abbastanza superflua.
Più simile ad un contenitore di belle (ma vuote) facce, di corpi che vorrebbero parlare, ma appaiono muti (specie durante le pudiche e tremende scene di sesso); ad un oggetto marketing perfettamente confezionato, Don’t Worry Darling è un film così blando, inconsapevole di ciò che lo circonda (politicamente e cinematograficamente), anacronistico ed insieme convinto e serio rispetto a ciò che predica e che intende fare, da suscitare quasi tenerezza. Un Black Mirror for Dummies, senza arte né parte. E dire che il retaggio comedy della Wilde non è nemmeno una scusate: pensate a Jordan Peele. Giusto, pure quello di Peele è uno dei mondi da cui l’attrice pesca alcune delle sue intuizioni thriller.
Quando registe e registi capiranno che operazioni di questo tipo non sono altro che autogol da milioni di dollari - tutt’al più servono soltanto a ridicolizzare e rendere pretenzioso uno dei temi cardine della contemporaneità -, forse non tanto il mondo, ma quantomeno il cinema sarà un posto migliore. Una lettura più presente di ciò che ci circonda.
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