TITOLO ORIGINALE: Thirteen Lives
USCITA ITALIA: 5 agosto 2022
USCITA USA: 29 luglio 2022
REGIA: Ron Howard
SCENEGGIATURA: William Nicholson
GENERE: drammatico
PIATTAFORMA: Amazon Prime Video
Ron Howard dirige e produce un film che, a distanza di qualche mese da The Rescue, racconta la storia vera dell'incidente di Tham Luang e delle operazioni di salvataggio ed estrazione ad opera di un gruppo di sommozzatori. A differenza di gran parte dell'ultima produzione howardiana, Tredici Vite è un'opera estremamente equilibrata e metodica, merito innanzitutto di una sceneggiatura che non si perde in sofismi eccessivi, in fatali profusioni, in didascalismi rovinosi o in retorica spicciola, anzi sfruttando tutte le proprie possibilità per esplorare un insieme di ottime intuizioni e rappresentare, con dovizia di particolari, tutte le parti in gioco, la cooperazione e il senso condiviso di fratellanza che ha legato culture e popoli davvero agli antipodi. Poi, della sua trasposizione e messa in scena da parte di un Ron Howard mai così asciutto ed essenziale.
13 vite da salvare, 10.000 persone coinvolte, 17 paesi accorsi, 1 miracolo che ha unito il mondo. Sono questi i “numeri” di quello che è divenuto noto alle cronache e all’opinione pubblica come l’incidente di Tham Luang. Incidente, avvenuto il 23 giugno 2018 nella provincia di Chiang Rai, in Thailandia, che ha visto protagonisti dodici ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 17 anni e un uomo (il loro allenatore di calcio) di 25, prigionieri, per quasi un mese, dei cunicoli di una grotta progressivamente allagata da insistenti ed improvvise piogge monsoniche.
Un evento che, in maniera non dissimile da quanto avvenuto in Italia con la tragedia del Vermicino, ha catturato totalmente l’opinione pubblica, seppur in chiave più globale (d’altronde non siamo più nel campanilistico e nel domestico 1981, ma nel cosmopolita e globalizzato 2018), e pur concludendosi, al contrario di quanto accaduto al povero Alfredino, su note più liete. Infatti - come ben racconta The Rescue, il documentario National Geographic diretto da Elizabeth Chai Vasarhelyi and Jimmy Chin - grazie all’aiuto e all’intuizione speciale di un gruppo di sommozzatori inglesi e al supporto di un plotone di Navy Seals thailandesi, tutti e tredici i dispersi sono stati portati in salvo. Il tutto, con perdite ed intoppi relativamente minimi rispetto a quanto preventivato e temuto dallo stesso team di estrazione.
Ebbene, l’incidente di Tham Luang e tutto ciò che, purtroppo o per fortuna, ne è scaturito - profonda umanità, grande cooperazione, impressionante impegno e professionalità ed imprevedibile efficienza - è esattamente ciò che farebbe gola ad un regista umanista, filantropico, ottimista, per non dire bonariamente ingenuo, come Ron Howard, che, su episodi in cui uomini (appunto buoni, altruisti, comprensivi e generosi) si trovano a fare i conti con qualcosa di straordinario e/o soverchiante, ha fondato una carriera intera, nonché un modo di pensare il cinema quale testimonianza per immagini, fortificante e (ri)vitalizzante, della grandezza e dignità umana.
Il riferimento è - ça va sans dire - al lato più impegnato, drammatico, premiato ma anche, ahinoi, pomposo, enfatico, stucchevole ed incostante di una filmografia che, ad ottime opere e racconti del calibro di A Beautiful Mind, Frost/Nixon e Rush, alterna veri e propri polpettoni autocompiaciuti come l’ultimo Elegia americana, nient’altro che un bieco escamotage per portare (invano) Glenn Close alla vittoria dell’Oscar.
Per la fortuna di chi scrive, vista soprattutto la considerevole durata (ci si arresta infatti alla soglia delle due ore e trenta), Tredici vite - questo il titolo del film-mosaico che Howard trae da quei giorni turbolenti - si colloca nella prima schiera di film, merito, in particolar modo, della sceneggiatura di William Nicholson, la quale ha il pregio di non perdersi in sofismi eccessivi, in fatali profusioni, in didascalismi rovinosi o in quella retorica spicciola a cui spesso ci ha abituato l'opera howardiana - lo stesso Howard che, negli ultimi anni sembra più che altro voler diventare un piccolo Spielberg o un piccolo Eastwood, senza aver capito a fondo lo sguardo e la poetica né dell’uno, né dell’altro.
Anzi, Nicholson sfrutta tutto il tempo e le possibilità a propria disposizione per esplorare un insieme di ottime intuizioni e rappresentare, con dovizia di particolari, tutte le parti in gioco, la cooperazione e il senso condiviso di fratellanza che ha legato culture e popoli davvero agli antipodi, raccontando inoltre tutti i processi e le procedure di immersione e salvataggio, il senso di oppressione dovuto all'attenzione dei mass media e dell'opinione pubblica (a cui si contrappone, idealmente ed elegantemente, la claustrofobia, la pressione e l’angoscia delle operazioni in prima persona), il chiacchiericcio mediatico, oltre che - e in modo tutt'altro che macchiettistico - le superstizioni, il folclore, la forte spiritualità e il sacrificio delle comunità locali.
Ecco, forse quello che viene sì fatto percepire, ma che purtroppo non viene messo in luce o in primo piano più di tanto, quasi fosse un fantasma che aleggia sul campo missione al di fuori della grotta di Tham Luang, è quella guerra silenziosa e politica, fatta di concessioni e prese di posizione ferree e talora rischiose, ma anche di diffidenza, ipocrisia e vano patriottismo, che ha contraddistinto i rapporti delle forze governative ed istituzionali con gli attori umanitari e civili (tra volontari e parenti dei ragazzi dispersi). Quell’ottusa ostinazione e quell'inflessibilità che, in alcuni momenti, hanno rappresentato niente più che inutili forzature e rallentamenti ad uno svolgimento sano ed efficace delle operazioni di soccorso.
Banalmente, Tredici vite è l’ennesima produzione dell’ultimo Ron Howard nella quale vi è l’inguaribile ed ottimistica propensione a chiudere un occhio su ciò che di marcio, corrotto, immorale, ma, d'altronde, profondamente umano, vi è nel mondo e nella società, per concentrarsi invece su ciò che è meritevole, magnifico, radioso. Una visione come un’altra(?), che può piacere o meno, ma sempre e comunque una firma ben riconoscibile.
Un innegabile marchio di fabbrica che, quantomeno in questo film, non finisce per divorare, assuefare e stordire il racconto di William Nicholson o la composizione di un Howard mai così asciutto ed essenziale, il quale, con la complicità della fotografia herzogiana di Sayombhu Mukdeeprom (lo ricordiamo per il suo lavoro in Chiamami col tuo nome e Suspiria di Luca Guadagnino, per Memoria di Apichatpong, e per Beckett di Ferdinando Cito Filomarino) e del montaggio imperfetto ma elegante, nonché abilissimo nell’arte dell’ellissi di James D. Wilcox, adotta un approccio quasi documentaristico nel trasporre su schermo tutte le peculiarità e specialità dello script, dunque nel racconto di relazioni e dinamiche, nel resoconto fattuale e dovizioso di quei giorni, senza però scordarsi di dar vita ad una macchina tensiva non sempre performante, ma convincente nei frangenti più intensi, o di dirigere, in maniera pulita e lucidissima, un ensemble attoriale composto, tra gli altri, da uno spigoloso Viggo Mortensen, da un tenero Colin Farrell e da un Joel Edgerton straordinariamente vulnerabile.
Qualcuno potrebbe addirittura avanzare che Tredici vite sia retoricamente anche(!) una profonda messa in discussione della tipica algidità e razionalità anglosassoni, a contatto con un paese tropicale, caloroso, aperto, sentito. Certo, la messa in scena howardiana è, come sempre, (e forse pure troppo) trasparente e manifesta nelle sue intenzioni e nei suoi fini drammaturgici - basti pensare all’utilizzo del tutto scolastico della colonna sonora di Benjamin Wallfisch -, per non parlare infine di un paio di product placement davvero di cattivo gusto.
Ciò non toglie però che, allo stato attuale, questo sia probabilmente il miglior antidoto al cinema - artificioso, manipolatorio, retorico e retrogrado - di Ron Howard.
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