TITOLO ORIGINALE: The Gray Man
USCITA ITALIA: 13 luglio 2022
USCITA USA: 13 luglio 2022
REGIA: Anthony e Joe Russo
SCENEGGIATURA: Joe Russo, Christopher Markus, Stephen McFeely
GENERE: azione, thriller
PIATTAFORMA: Netflix
200 milioni di budget (il più alto della storia di Netflix) e la trinità attoriale Gosling-Evans-De Armas sono i principali ingredienti di The Gray Man, il ritorno dei fratelli Russo all'action duro e puro, dopo la dimenticabile e dimenticata parentesi di Cherry. Purtroppo, laddove il film sembra sposare, con alcune sue scelte, la via dell'avventura planetaria spregiudicata, incontrollabile, giocosa, eccessiva ed ipertrofica alla Fast & Furious, quasi parodiando la rotta intimista, drammatica e più seria che il filone spionistico ha recentemente conosciuto con il James Bond di Daniel Craig e il franchise di Jason Bourne, questa sua natura tracotante e ridicola si schianta, in maniera a dir poco rovinosa, contro il muro di una confezione che sembra invece pensata e costruita a tavolino per inserirsi, riconoscersi ed uniformarsi a quei titoli che parrebbe dissacrare. Quello che rimane è dunque un prodotto vecchio, insipido, esile narrativamente, confusionario ed altalenante nell'azione, decisamente troppo meccanico ed artificioso per favorire un reale coinvolgimento nelle vicende e nel futuro di questi personaggi e di questo mondo, nonché estremamente blando per imporsi come vorrebbe nel panorama action contemporaneo.
Non è solo un altro, perfetto, eccellente esempio della produzione algoritmica made in Netflix, ma anche, e purtroppo, un film che sembra quasi il prodotto di una macchina, di un computer, di un’intelligenza artificiale, The Gray Man dei fratelli Russo.
Del resto, algido, razionale, rigido, modulare, tecnocratico sono tutti aggettivi consoni ed azzeccati per descrivere l’approccio che la coppia da cinque miliardi di dollari (con il dittico Avengers: Infinity War ed Endgame) adotta per il suo ritorno all’action duro e puro, dopo la (dimenticabile e dimenticata) parentesi di Cherry e l’abbandono, con esso, di ogni speranza rispetto ad una carriera e ad un futuro registico in un cinema meno colossale ed eroico e più impegnato, controverso, problematico, discorsivo.
Si torna dunque a menar le mani (questa volta, senza preoccuparsi neppure troppo delle ripercussioni) e lo si fa nel modo insieme più giusto e sbagliato possibile. Sin dai suoi presupposti o anche solo dal suo incipit, infatti, The Gray Man sembra tracciare di fronte a sé un percorso che potrebbe, anzi dovrebbe intraprendere ed abbracciare con estrema facilità e senza troppe cadute di stile. Ossia quello dell’avventura planetaria spregiudicata, incontrollabile, giocosa, eccessiva ed ipertrofica: la stessa filosofia alla base della saga e dell'universo di Fast & Furious, per intenderci.
Anzi, proprio quello di Dominic Toretto & co. o, tutt’al più, quello cine fumettistico sono i due habitat naturali - o meglio, i due soli possibili - per una pellicola che fonda il proprio racconto su un pretesto bell'e buono, il cui unico fine è permettere agli sceneggiatori (lo stesso Joe Russo assieme a Christopher Markus e Stephen McFeely) di sballottare i personaggi da un angolo all’altro del globo e farli scontrare in scenari ed arene che cambiano e si alternano ad ogni cambio sequenza. Per un’opera dunque vacua in termini narrativi, incapace nella costruzione tensiva ed infantile nella sua visione geopolitica del mondo, che mette in scena sostanzialmente le imprese di un gruppo di supereroi senza superpoteri, con tanto di reminiscenze feticistiche dello scontro tra Capitan America e Iron Man in Captain America: Civil War (sempre dei Russo).
Purtroppo il problema è che, laddove The Gray Man sembra sposare, con alcune sue scelte, proprio questa via goliardica, spassosa, caotica, a tratti quasi parodica rispetto alla rotta intimista, drammatica e più seria che il filone spionistico ha conosciuto con il James Bond di Daniel Craig e il franchise di Jason Bourne (giusto per citarne alcuni), questa sua natura tracotante e ridicola si schianta, in maniera a dir poco rovinosa, contro il muro di una confezione (da 200 milioni di dollari di budget, il più alto di sempre per Netflix) che è invece pensata e costruita a tavolino per inserirsi, riconoscersi ed uniformarsi a quei titoli che parrebbe dissacrare.
Emerge così, tra il serio e il faceto, il peccato originale - già anticipato in apertura - di The Gray Man, vale a dire la più totale mancanza di una direzione registica, sostituita invece da un simil Hal 9000 che insegue la via della correttezza, ma che non inserisce nell’equazione né il gusto, né l’ispirazione, né tantomeno il benché minimo briciolo di passione per ciò che sta inquadrando e raccontando.
Cosa che, subito dopo la messa in scena dell’azione: confusionaria nei segmenti di combattimento corpo a corpo, fastidiosa in un profluvio di droni meglio ascrivibile ad un esordiente che ne ha appena imparato il funzionamento, fintissima ed artificiosa nelle scene con maggior impiego di incostanti effetti visivi [la sequenza della caduta dell’aereo, in tal senso, è quanto di più agghiacciante vedrete quest’anno - impressione forse soffocata e palliata da una fruizione casalinga]; va ad inficiare anche la resa delle interpretazioni di un cast all-star, anch’esso studiato a tavolino e passato al vaglio dell’algoritmo e delle più recenti tendenze.
Un parterre attoriale che, in mancanza di suddetta direzione, quanto, in particolare, di una scrittura capace di obliare la natura preconfezionata e sintetica del progetto e di una caratterizzazione che aspiri a qualcosa di più di un semplice abbozzo macchiettistico, sembra quasi autoregolarsi, apparendo dissonante, fortuito e spesso incomprensibile, quasi si trattasse di un insieme di piccoli mondi, costretti a convergere in un unicum pur non potendo trovare realisticamente ed autonomamente un punto d’incontro o un minimo comune denominatore.
Senza qualcuno che ne sappia sfruttare l’elegante e fine linea attoriale, ecco quindi che Ryan Gosling, con la sua recitazione fatta di micro-espressioni e grande sottrazione, appare piatto, monocorde, stolido - e questo, nonostante si tenti invano di donare cuore e umorismo al suo Sierra Six.
Per non parlare di Ana De Armas, che i Russo prelevano di sana pianta da No Time to Die, riuscendo tuttavia ad estinguerne quella naturale carica erotica, fascinosa e seduttiva e quella femminilità ingenua, candida, ma estremamente scaltra e fatale - qui sfruttata soltanto per un pigro scambio dei ruoli - che caratterizzavano la sua Paloma (che, ricordiamolo, è una delle magie dello 007 di Fukunaga).
Ma lo scettro è di Chris Evans e il suo Lloyd Hansen, capo psicopatico, pirotecnico ed imprevedibile di un’agenzia privata che i governi assoldano quando necessitano di una risoluzione forte e decisa; un villain che rappresenta l’elemento più cacofonico, cartoonesco e stilizzato dell'universo di The Gray Man, lo specchio del divertimento che avrebbe potuto attenderci; della via e della filosofia a cui la pellicola avrebbe dovuto aderire senza troppi ripensamenti o titubanze.
Per finire, completano il pacchetto un Regé-Jean Page (direttamente dalla netflixiana Bridgerton) che, ancor prima di vestire, seppur ancora teoricamente, i panni della spia più nota al mondo, porta su schermo una specie di M fin troppo ridicolo e troppo poco ambiguo, un Billy Bob Thornton in pre-pensionamento, una Jessica Henwick fastidiosissima di cui ogni tanto viene ricordata la presenza, ed un Wagner Moura di cortesia nei panni di un personaggio alquanto inutile.
Ciò detto, poco fa e poc(hissim)o importa che, nel suo atto finale, The Gray Man riesca a trovare maggior equilibrio e a dar forma a due blocchi di intrattenimento duro e puro, ma soprattutto efficace, durante i quali l’azione, seppur con estremo ritardo, decolla e riprende finalmente quota.
Sì, perché, nonostante tutto e malgrado le premesse e le promesse di un inizio di franchise (che paiono fare del film dei fratelli Russo quasi un pilot annacquato), stiamo parlando di un prodotto vecchio, insipido, gracilissimo, decisamente troppo meccanico ed artificiale per favorire un reale coinvolgimento nelle vicende e nel futuro di questi personaggi e di questo mondo, nonché estremamente blando per imporsi come vorrebbe nel panorama action contemporaneo, il quale ha appena visto una nuova primavera con Top Gun: Maverick.
Come si suol dire, l’abito non fa il monaco: né una trinità attoriale come Gosling-Evans-De Armas, né tantomeno 200 milioni di dollari di budget possono infatti redimere una pellicola che è forse uno dei “fallimenti più spettacolari” di Netflix ed una serie che, così come i precedenti 6 Underground, Tyler Rake, The Old Guard e Red Notice (di cui vi abbiamo appena ricordato l’esistenza, prego), sarà inevitabilmente condannata ad “esistere nel grigio”. Forse è proprio a The Gray Man che Martin Scorsese si riferiva inconsapevolmente quando diceva "non sono cinema ma luna park".
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