TITOLI ORIGINALI: Jurassic Park; The Lost World: Jurassic Park; Jurassic Park III; Jurassic World; Jurassic World: Fallen Kingdom
REGISTI: Steven Spielberg, Joe Johnston, Colin Trevorrow, J. A. Bayona
SCENEGGIATORI: Michael Crichton, David Koepp, Peter Buchman, Alexander Payne, Jim Taylor, Colin Trevorrow, Derek Connolly, Rick Jaffa, Amanda Silver
GENERE: azione, fantascienza, avventura, thriller
In occasione dell'uscita nelle sale di Jurassic World - Il dominio, ripercorriamo i fasti e i fallimenti di una saga che ha dato inizio ad una vera e propria rivoluzione della storia del cinema, per poi arenarsi in tentativi dubbi e archeologici, nel puro senso del termine. Da Jurassic Park di Steven Spielberg a Jurassic World di Colin Trevorrow, ecco la nostra retrospettiva sul franchise più ossimorico di tutti.
È davvero difficile non incappare in proverbialità, quando ci si ritrova a scrivere o a parlare di Jurassic Park (1993) di Steven Spielberg, film di culto vincitore di tre premi Oscar che, con il suo utilizzo massiccio di animatronics e dell’allora nascente tecnica della computer grafica, ha reso possibile l’impossibile, rivoluzionando e ridefinendo il cinema hollywoodiano ed internazionale. Jurassic Park è il sogno cinefilo di intere generazioni. Un’opera che, oltre ad aver monopolizzato e segnato l’immaginario collettivo, ha inventato pure il concetto e la forma contemporanei del blockbuster. L’ennesima consacrazione di un regista il cui cinema, con il suo “senso della meraviglia” e la sua “meraviglia del senso” [Emanuele Rauco], rappresenta forse l’essenza medesima del mezzo e dell’arte cinematografica.
A partire infatti dall’omonimo e spinoso romanzo di Michael Crichton - che firma una prima stesura della sceneggiatura, poi rimaneggiata, snellita ed edulcorata da David Koepp - Spielberg continua a raccontare il conflitto tra razionalità ed irrazionalità, tra ordine e caos, tra uomo e natura, con il primo che tenta di governare la seconda giocando a fare Dio, e quest’ultima che gli si ribella con conseguenze disastrose. Un concetto già messo in scena e portato ai massimi estremi nel capolavoro Lo squalo di quasi vent’anni prima, film, quest'ultimo, con cui il cineasta aveva dato vita non solo ad un’impeccabile macchina tensiva che reimpiegava la lezione del thriller hitchcockiano, ma anche e soprattutto all’ideale perfetto ed eccellente di blockbuster estivo, di cui Spielberg tenta qui di replicare formula e successo.
Il racconto di un simpatico ma sin troppo appassionato miliardario [fantastico e ancora rilevante il confronto con la dottoressa Sattler/Laura Dern], tal John Hammond, che, dopo aver fatto una scoperta sconvolgente, costruisce e dà letteralmente vita ad un parco dei divertimenti su un’isola a 150 km di distanza dal Costa Rica, con dinosauri vivi al suo interno, diventa l’accattivante pretesto narrativo di un’opera volutamente contraddittoria e ossimorica, un po’ come l’uomo, tanto razionale, quanto sfrontata ed arrogante; e la natura stessa, incantevole ma pericolosa al contempo. Di una pellicola che declina il discorso di incontro/scontro con l’”inquietantemente affascinante”, centrale ne Lo squalo, in una chiave tecnologica, creativa, di innovazione ed invenzione cinematografica.
Jurassic Park è, di fatto, un testo profondamente teorico che mette in scena un incontro ravvicinato del terzo tipo tra King Kong e i dinosauri di quest’ultimo, o meglio, tra il cinema delle attrazioni classico e il cinema proto-digitale, il primo legato ad un’idea illusoria, analogica e manuale, l’altro invece ancor più illusorio, tuttavia spinto da una fede realistica o pseudo-tale. Parliamo, insomma, di un testo che ragiona sull’invenzione e l’evoluzione che esso stesso apporta - proprio grazie all’uso pionieristico che fa della computer grafica - all’orizzonte delle possibilità immaginifiche ed espressive del mezzo cinematografico/macchina dei sogni hollywoodiana. Che offriva agli spettatori dell’epoca uno scorcio del futuro, del cinema che sarebbe stato ed è tutt’ora, rianimando ciononostante qualcosa che era ed è vecchio di milioni e milioni di anni.
Se il cinema può aspirare ad essere Dio, come cambierà la nostra percezione del mondo e della realtà? È questa - non tanto quella anti-capitalista e naturalista - la profonda riflessione di fronte a cui ci pone Jurassic Park di Steven Spielberg.
Esauritosi lo shock culturale e cinematografico del primo film, Steven Spielberg torna dietro la macchina da presa del mondo dei dinosauri. Michael Crichton, autore del romanzo originale, pensò inizialmente di scrivere una sceneggiatura basata sulla storia di uno studente universitario che riesce a ricreare dei dinosauri. L’idea venne però abbandonata e, dopo un primo momento di incertezza [Crichton infatti non era solito scrivere seguiti], anche e soprattutto per merito dell’intercessione di Spielberg, iniziò a scrivere un seguito letterario di Jurassic Park, mantenendo ben saldi gli elementi caratteristici del primo libro. Così, nel 1995 Il mondo perduto venne pubblicato in tutto il mondo, e la fase di produzione per il sequel venne avviata a settembre del 1996. Spielberg contattò Joe Johnston per dirigere il film, ma in quel periodo questi era impegnato con un altro progetto, Jumanji, cosicché Spielberg fu praticamente costretto a riprendere in mano da dove aveva interrotto.
Seppur lo si possa considerare un film minore all’interno di una filmografia che conta perle quali Lo squalo, E. T., Indiana Jones, Schindler's List, Hook, Il colore viola, pure lo stesso Jurassic Park del 1993; Il mondo perduto è tutt’altro che un “more of the same” del primo capitolo. Anzi, i due film si caratterizzano proprio per disporre di due identità ben distinte tra loro: laddove, infatti, la pellicola originale si presentava come un’avventura per ragazzi dalle imprescindibili meccaniche thriller e con qualche punta di orrore, questo sequel si fonda su una estremizzazione (nel bene e nel male) di tutte e tre le anime fondative e cinematografiche di Jurassic Park.
Pertanto, se, in termini prettamente avventurosi, si tenta (purtroppo invano) di ricalcare i toni, le situazioni, oltre che la costruzione dell’eroe tipici di un qualsiasi Indiana Jones - e, in tal senso, Jeff Goldblum si rivela una scelta sbagliata -, sono le componenti thriller e horror che salvano Il mondo perduto dall’oblio della noia e della mediocrità. Superati i primi ed ostici quaranta minuti, infatti, la pellicola imbocca la strada dell’intrattenimento più puro e sfrenato, inanellando una sequela di idee, soluzioni ed invenzioni registico-compositive, talora, anche estremamente violente e ciniche, che testimoniano la presenza, nonché il tocco inconfondibile ed infallibile di un esilarante e divertito Steven Spielberg dietro la macchina da presa, quasi fosse un’attrazione di un vero Jurassic Park (la sequenza dell’attacco alla roulotte è da storia del cinema).
Ciò nonostante, il problema più grande, ma non per questo invalidante, de Il mondo perduto è pure il più banale, ovvero porsi come seguito di un film così teorico e rivoluzionario come quello del 1993, davvero inarrivabile, specie constatata la generale modestia e pretestuosità della sceneggiatura (questa volta, del solo David Koepp) che riduce il tutto ad un retorico e pedante scontro di ideologie e posizioni, rimuovendo dunque tutto quel sotto testo meta cinematografico su cui poteva contare il primo film.
Non è certo un segreto inconfessabile che il terzo capitolo di Jurassic Park sia il più debole della trilogia. Un po’ per l’abbandono alla regia di Steven Spielberg - che rimane tuttavia in veste di produttore esecutivo - a favore di Joe Johnston, già contattato dallo stesso Spielberg per il secondo film, allora reduce del successo di Jumanji, una delle pellicole simbolo degli anni ‘90.
Dunque, non sorprende nemmeno il fatto che, pur essendo uscito nel 2001, Jurassic Park III sia, in fondo, un film figlio di quel decennio (tra gli attori, non a caso, vi è William H. Macy) e, in particolar modo, delle sue commedie, sospese tra il trash, il camp e il demenziale. Dal canto suo, la sceneggiatura - scritta a sei mani, sì, da due autori dalla carriera non propria fulgida, come Peter Buchman e Jim Taylor, ma anche dal premio Oscar Alexander Payne - estrapola e riutilizza al ribasso le componenti caratteristiche del franchise giurassico, dando poco corpo e ancor meno anima ad un intreccio stupidamente nostalgico che rivela fin da subito la sua pretestuosità; il suo essere nientemeno che un alibi atto a giustificare una fantasmagoria ludica ed incessante, attenuata qua e là da una trama melò abbastanza proverbiale, tuttavia simpatica nella sua assurdità.
Ed è un peccato che l’eredità di Jurassic Park e di Steven Spielberg (del cui tocco si sente terribilmente la mancanza) venga ridotta ad un B-movie di stampo quasi videoludico, indistinguibile da qualsiasi emulo o parodia, se non per la presenza di un Sam Neill bollito ed una Laura Dern di passaggio. Ed è davvero una sfortuna, anche perché il soggetto di partenza del film si colloca nei lidi confortevoli di un film-maker solido e dinamico come Johnston, specializzato nelle commedie avventurose per la famiglia, la cui regia dimostra invero qualche guizzo, specie nell’esposizione del racconto e nei suoi momenti più action. Non abbastanza, tuttavia, da salvaguardare Jurassic Park III dall’essere un tentativo dimenticabile che, in sede di rewatch della saga, potreste addirittura trascurare.
Un momento, più di altri, riesce a riassumere perfettamente la filosofia alla base di Jurassic World di Colin Trevorrow, il reboot di Jurassic Park che la Universal commissionò quando ancora la parola reboot era relativamente fresca di invenzione.
È quando, durante l'interminabile fuga e rincorsa che domina l’atto centrale del racconto ideato da Rick Jaffa e Amanda Silver e sviluppato dagli stessi, insieme al già citato Trevorrow e Derek Connolly; due personaggi si ritrovano nella lobby del vecchio Jurassic Park - quello costruito da Hammond - e utilizzano un vecchio striscione del parco per fare un po’ di luce. Lasciamo a voi le banali deduzioni di questa metafora, che ciononostante riassume perfettamente, come già anticipato, l’atteggiamento, se non proprio necrofilo, “da mantenuto” di una pellicola che condivide moltissimi punti di contatto con Star Wars: Il risveglio della Forza.
Infatti, oltre ad essere due reboot praticamente coevi, entrambi i film sono rifacimenti non dichiarati dei propri capostipiti, di cui rimaneggiano e aggiungono quanto basta per non incorrere in eventuali accuse di pigrizia o plagio, e sono, a loro volta, i capostipiti di operazioni, sì, incostanti, incoerenti, prive di un’identità artistica, editoriale o tecnica ben precisa, ma comunque fruttuose solo ed esclusivamente per il brand che rappresentano e a cui appartengono (nel caso di Jurassic World, parliamo di 1,6 miliardi di dollari al botteghino; nel caso del sequel, di 1,3 miliardi).
Quello di Trevorrow - che non a caso verrà poi consultato invano per l’Episodio IX di Guerre Stellari - è dunque un tentativo che, seguendo le orme dell’originale di Spielberg, ricerca una propria valenza teorica e meta cinematografica, auto qualificandosi come effetto collaterale della rivoluzione tecnico-creativa che vide la luce proprio con Jurassic Park. Una rivoluzione che ha portato all'esasperazione e alla pervasività, anche immaginifica, dell’effetto visivo all’interno del cinema di oggi, viziato e assuefacendo, al contempo, lo spettatore, a cui “i dinosauri non fanno più alcun effetto” e che, poiché è in cerca di emozioni (“come tutti”), necessita di “più zanne, più artigli” per essere davvero colpito e suggestionato.
Peccato soltanto che, laddove Spielberg & co. riuscivano a bilanciare tali pretese riflessive e meta con un racconto avvincente, nonostante i didascalismi, corredato inoltre da innumerevoli lezioni di cinema, il film di Trevorrow fatichi ad andare oltre dei personaggi imbarazzanti, un intreccio davvero primordiale, una costruzione dell’azione scolastica, quasi simpatica nel suo essere dilettantistica; insomma, oltre la sensazione di trovarsi di fronte ad un prodotto pensato, scritto e messo in scena da una crew di artisti e mestieranti, e non dal reparto marketing della Universal.
Aspetto, quest'ultimo, che, se proprio fossimo in vena di dietrologismi, potremmo leggere quale precipua ed ennesima critica ai danni dell'industria cinematografica attuale. Tuttavia, sarebbe un intento forse troppo astuto per un'opera che flirta talmente tanto con il passato (salvatore della situazione, oltre che della vita dei suoi protagonisti), che sembra non abbia poi davvero nulla da dire. Né di nuovo, né tantomeno di interessante.
Colin Trevorrow si fà da parte, pur rimanendo in qualità di sceneggiatore e produttore esecutivo (insieme ad uno Spielberg probabilmente cieco), e lascia la cabina di regia in mano allo spagnolo Juan Antonio Bayona, film-maker che ha incontrato il beneplacito della Universal per le sue buone prove nell’horror The Orphanage, vincitore di sei premi Goya, e nel disaster movie The Impossible, con Ewan McGregor, Naomi Watts ed un giovanissimo Tom Holland.
Due reami, l’horror e il film catastrofico, appunto, nei quali questi dimostra di sapersi districare con grande consapevolezza, in questo secondo capitolo di Jurassic World, che, a differenza del predecessore, può contare invero su un paio di soluzioni registiche più intriganti ed elaborate, su un terzo atto che sfrutta, seppur al ribasso e senza terrorizzare più di tanto, l’affiliazione dello stesso Bayona all’horror a tema case infestate, e su un’orchestrazione action più armoniosa, equilibrata e coinvolgente del primo capitolo.
Rimane tuttavia il problema, di per sé ingombrante, di una sceneggiatura stupida e pretestuosamente citazionista, che fa del proprio intreccio nient’altro che un susseguirsi di situazioni di dubbia utilità e capacità affabulatoria (per non dire di meri riempitivi), ribadendo per di più l'irrilevanza ed indigenza di un ensemble di personaggi spessi e profondi quanto un foglio di carta velina, mantenendone invariati i rapporti ed equilibri del film precedente, e ricalcando, in parte, gli espedienti e i risvolti adottati già dal secondo capitolo di Spielberg (vedasi la missione di recupero - questa volta - dei dinosauri, un rapporto paterno problematico o, anche solo, l’incontro tra dinosauri e civiltà).
Per non parlare, infine, delle interpretazioni stanchissime di un Chris Pratt mai così fastidioso e di una Bryce Dallas Howard, invece, mai così affascinante, e della melensa sotto trama romantica/sentimentale tra il cowboy-macho Owen Grady e il velociraptor Blu, ormai tramutato in un cagnolino da passeggio. Tutti aspetti, questi ultimi, che fanno de Il regno distrutto un sequel votato al risparmio di sforzo e dote creativa.
La nipote di Benjamin Lockwood (chi?!) è, in realtà, un clone di sua madre (cosa?!) e il titolo della trilogia, Jurassic World, assume tutt’altro significato, ma, finita la giostra e rimessi i piedi in terra, è come se nulla fosse realmente cambiato.
La sequenza post-credit più insulsa di tutti i tempi, quantomeno fino a Morbius. Amen.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.