TITOLO ORIGINALE: The United States vs. Billie Holiday
USCITA ITALIA: 26 febbraio 2021
USCITA USA: 5 maggio 2022
REGIA: Lee Daniels
SCENEGGIATURA: Suzan-Lori Parks
GENERE: biografico, drammatico, musicale
PREMI: Golden Globe per la migliore attrice protagonista
Il racconto di dodici (di 44) anni di vita della leggenda blues e jazz Billie Holiday diventa, per il regista Lee Daniels e la sceneggiatrice Suzan-Lori Parks, un'opportunità per condannare l'inesistenza, negli Stati Uniti, di una legge contro il linciaggio degli afroamericani, sulla scia del movimento Black Lives Matter. Più che un biopic, Gli Stati Uniti contro Billie Holiday è dunque un film a tesi interessante nella misura di (ri)prova e testimonianza del processo di uniformazione e standardizzazione di gran parte dei film che portano avanti la causa della rivincita afroamericana e della riconquista della rappresentazione. Infatti, al di là di questo interessante discorso extra-diegetico, il film di Lee Daniels offre davvero ben poco, in termini narrativi e formali.
Nel 1937, al Senato statunitense venne presentata la prima proposta di legge per richiedere l’abolizione del linciaggio ai danni del popolo afroamericano per motivi razziali. Un altro tentativo è stato fatto di recente, nel 2020, ma, pure questa volta, la proposta è stata bocciata. Di fatto, ad oggi, negli Stati Uniti non esiste ancora una normativa che condanni questi barbarici episodi.
È questo ciò di cui si lamentano a gran voce il regista Lee Daniels e la sceneggiatrice Suzan-Lori Parks ne Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, che si apre e chiude proprio con le solite, immancabili didascalie ad assunto e conclusione lapidaria di una contestazione artistica che utilizza, come sua "pezza d’appoggio”, il racconto di dodici (dei 44) anni di vita della leggenda del jazz e del blues Billie Holiday.
Al secolo Eleanora Fagan, Lady Day nasce a Philadelphia nel 1915 e assurge, dopo una giovinezza di violenze, stenti e privazioni, a diva dei palcoscenici e della scena musicale statunitense, con brani immortali quali Solitude, All of Me, Blue Moon, Ain't Nobody Business e Strange Fruit: quest'ultima una canzone del 1939 scrittale dal comunista Abel Meeropol, definita "antiamericana" da J. Edgar Hoover, che le provocherà non pochi problemi con la legge, ma che ciononostante ella desidererà cantare e riterrà essenziale, forse la sua più significativa, sino al resto dei suoi giorni.
Il motivo di tanta problematicità è presto detto. Attraverso una secchezza melodica ed una straordinaria potenza evocativa e simbolica, il brano descrive infatti la scena di un uomo di colore il cui corpo (lo strano frutto del titolo) penzola da un albero. Un chiaro riferimento alle violenze, ai soprusi e ai linciaggi figli del periodo schiavista, che, specie nel profondo Sud, e ancora negli anni '40, erano praticamente all’ordine del giorno. Questo fece della canzone, definita "il brano del secolo" dalla rivista TIME, l'importante manifesto anti razziale che continua ad essere tutt'oggi.
Ciò detto, malgrado l’importanza che questa canzone e la sua cantante ricoprono all’interno del film di Lee Daniels, più che un biopic finalizzato alla ricostruzione della vita di una figura senz’altro controversa, problematica, psicologicamente disturbata [ha molti punti di contatto, seppur con i dovuti accorgimenti, con Judy Garland, la sua parabola divistica e il suo modo di rapportarsi e di concepire il maschile], tuttavia precorritrice di alcune spinte ideologiche moderne e contemporanee o, in altre parole, su una donna, al contempo, fuori ed irriducibile prigioniera del proprio tempo; Gli Stati Uniti contro Billie Holiday è un film a tesi che, sull’onda della primavera inoltrata del movimento Black Lives Matter (e senza chiudere la porta al #MeToo), si propone l’obiettivo di indignare, smuovere, istruire ed urtare la sensibilità del pubblico, convertendo un’altra personalità ed un’altra storia in eccellenti antesignani ed alfieri dei propri motivi e del proprio gesto politico.
Una decisione di per sé comprensibile e sensata, nonché del tutto legittima, ma che ha, come unico vizio, essere, appunto, un’altra, l’ennesima, la nuova, seppur (lo ribadiamo) sacrosanta, denuncia del razzismo. La pellicola diventa perciò interessante nella misura di (ri)prova e testimonianza del processo di uniformazione e standardizzazione - estetica, produttiva e di immaginario - di gran parte dei film che portano avanti la causa della rivincita afroamericana e della riconquista della rappresentazione, che diventa rappresentanza, e di una voce propria. Un adeguamento, anzitutto formale, che ha ormai raggiunto i limiti e abbracciato le caratteristiche del filone in tutto, per tutto e con tutto ciò che ne consegue. Nel bene e nel male.
Nel caso de Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, a farla da padrone, è purtroppo il male, esemplificato, in primis, dalla sceneggiatura della già citata Suzan-Lori Parks. Quest’ultima, a partire dal libro saggistico Chasing the Scream di Johann Hari, che - è bene specificarlo - analizza più che altro la storia e l’impatto della guerra alla droga sostenuta dal governo federale statunitense, nel cui mirino finirà pure la stessa Holiday; tratteggia infatti un ritratto della cantante che vorrebbe, sì, essere complesso, problematico, profondo, discutibile, ma che ciononostante si adopera per mostrare i lati più controversi della sua storia e della sua vita privata sempre e comunque sotto un profilo pietistico, giustificativo e vittimistico, ritrovando alla fin fine quell’agiografismo, di certo ottimo ai fini della vendibilità del prodotto, ma che, almeno inizialmente, sembrerebbe rifuggire.
Un ritratto in cui, peraltro, tutti coloro che circondano la nostra Billie Holiday si limitano e vengono ridotti ai ruoli loro prescritti e, di conseguenza, mai soggetti ad un qualche tipo di approfondimento o di evoluzione. Vi sono quindi gli aiutanti, i voltafaccia, i mariti violenti, bugiardi e possessivi, gli antagonisti (ovviamente) bianchi, spinti solo ed esclusivamente da un odio profondo e radicato nei suoi confronti.
Non dissimile è la sorte di Jimmy Fletcher, uno dei primi agenti di colore ammessi dal bureau, a cui viene chiesto di controllare ogni mossa della cantante, della quale però finisce per innamorarsi e diventare l'amante. Una figura, pertanto, molto ambigua e contraddittoria, colta tra due fuochi, moralmente schiacciata da questa missione che molti, pure la madre, reputano un accanimento ingiustificato ed astioso nei confronti di una donna “forte, bella e nera”, estremamente interessante, purtroppo mai analizzata a dovere dalla sceneggiatura di Suzan-Lori Parks, la cui superficialità di scrittura finisce per inficiare pure le potenzialità dell’interpretazione dedita e muscolare che Trevante Rhodes ne offre, oltre che le tensioni e dinamiche di un racconto in sé puerile che procede per inerzia dedito com'è da questo suo "stillicidio della persuasione".
Ciò detto, bisogna ammettere che nemmeno la messa in scena risplende più di tanto. Infatti, pur potendo considerare Gli Stati Uniti contro Billie Holiday una tappa prevedibile, forse inevitabile per un regista come Lee Daniels, spiace non riscontrare gli stessi guizzi, la perspicacia e la capacità di penetrazione, anche attraverso uno storytelling avvolgente, di una pellicola come Precious: una truce e spietata storia di abusi, violenze e miseria ambientata nella Harlem degli anni ‘80, fotografata come un film pettinatissimo di quel periodo, accompagnata da brani di quell’epoca - talora in dissonanza semantica con quanto rappresentato - e raccontata da un’istanza narrante costantemente ribadita ed evidenziata, a metà tra lo sperimentale (specie nel montaggio) e il documentario. Uno dei primi esempi di film obamiano che, cogliendo il testimone dello Spike Lee di Fa' la cosa giusta, riusciva a raccontare, non senza qualche difetto, un contesto spesso tenuto ai margini dell’inquadratura.
Ebbene, malgrado qualche traccia di quell'opera sia ancora vagamente rintracciabile, specialmente nei due segmenti pseudo-onirici (di impostazione quasi teatrale) e nel modo in cui Daniels riesce a far risplendere a tal punto l’esordiente Andra Day/Billie Holiday, da permetterle la candidatura all’Oscar e la vittoria di un Golden Globe (un po’ come fece con Gabourey Sidibe 13 anni fa); Gli Stati Uniti contro Billie Holiday si offre quale versione rimpicciolita, in termini strettamente produttivi, della formula di The Butler (sempre dello stesso Daniels), racconto in cui la tesi, la causa e la Storia finivano, alla lunga, per schiacciare il protagonista, i suoi turbamenti, la sua intimità e la sua storia.
Peccato che, a differenza della pellicola del 2013, la quale aveva dalla sua pure un cast ben assortito, questa ricostruzione degli ultimi dodici anni di Billie Holiday non abbia poi granché da dire e significare in termini meramente estetico-formali, anzi lasciandosi andare ad un uso ridondante, quasi morboso, che sfocia in abuso, di dissolvenze incrociate e dissolvenze a nero, nonché a segmenti del tutto didascalici, durante i quali le canzoni dell'artista (di cui qui si vuole riscoprire intimità, sincerità ed indole biografica) fungono da banale spiegazione di ciò che viene mostrato su schermo.
Niente più che capricci autoreferenziali estremamente fini a sé stessi, che aiutano però a comprendere esattamente la cifra leziosa e manierista che compone e contraddistingue la visione di Lee Daniels, così come l’inefficacia e la sconsideratezza di un film ingessato e didattico che spingerà, sì, i suoi spettatori a recuperare la musica e la produzione di questa meravigliosa artista, ma che, di certo, non fa nulla di più dello stretto indispensabile per rendere appassionante come vorrebbe un’argomentazione tematica che ha una capacità di penetrazione inferiore, se non equivalente, a quella di una didascalia che illumina lo schermo giusto per una decina di secondi.
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