TITOLO ORIGINALE: CODA
USCITA ITALIA: 31 marzo 2022
USCITA USA: 13 agosto 2021
REGIA: Sian Heder
SCENEGGIATURA: Sian Heder
GENERE: commedia, drammatico
PREMI: Oscar al miglior film, al miglior attore non protagonista e alla migliore sceneggiatura non originale
Vincitore di tre premi Oscar (su tre candidature), tra cui quello al miglior film, CODA - I segni del cuore di Sian Heder è il fedelissimo remake statunitense del dramedy francese, La famiglia Bélier, diretto da Eric Lartigau. Il racconto dell'unica figlia udente di genitori sordomuti che tenta di sottrarsi all'oppressione per certi versi egoista dei familiari ed intraprendere una strada che le potrebbe riservare un futuro lontano dal comfort di casa, serve alla Heder per ricordarci l'importanza del dialogo e dei propri spazi all'interno di qualsiasi rapporto, e spiegarci come la diversità sia soltanto una condizione, uno stato, un modo diverso di affrontare gli stessi problemi, i problemi di tutti. Grazie all'immedesimazione degli ottimi interpreti coinvolti, pervasi e uniti da una sinergia ed una chimica indiscutibili, tutti soggetti di un lavoro di casting azzeccatissimo, CODA riesce a superare le insidie di un intreccio semplice, convenzionale e conformista e a far breccia nel cuore dello spettatore. coinvolgendo, commuovendo, toccando tasti inaspettati.
Questa recensione è stata scritta dopo la vittoria di CODA agli Oscar 2022. Pertanto, abbiamo dedicato una porzione di questo articolo ad una disamina più discorsiva di questo trionfo per molti inatteso. Buona lettura!
Si sa, nessun premio è mai stato e mai sarà legato del tutto ad un fattore estetico, oggettivo o qualitativo. Tutte le premiazioni, dalla più modesta alla più importante, corrispondono, seppur in diverse gradazioni, ad una quota socio-politica che, a sua volta, sostanzia il prestigio, la rilevanza e la sopravvivenza stessa del premio. Di questo discorso, gli Oscar costituiscono forse il vertice, la cuspide, l’esempio più eclatante ed eccellente.
Questo è bene specificarlo a chi, come tanti, si è scandalizzato dopo che, la scorsa domenica notte, CODA (- I segni del cuore, in italiano) - classico piccolo film indipendente da Sundance, fedelissimo remake statunitense, ad opera di un’esordiente Sian Heder, del dramedy francese, La famiglia Bélier, diretto da Eric Lartigau - si è aggiudicato l'Oscar al miglior film. Una premiazione che è la diretta e (quasi) logica conseguenza di una crescita fulminea dei consensi nell’ultimo paio di settimane precedenti alla cerimonia, durante le quali la pellicola ha portato a casa pure altri premi prestigiosissimi (per la precisione, due BAFTA e il Writers Guild of America Award), ma che ciononostante è giunta in modo talmente inaspettato ed accidentale, da alimentare e fomentare ancor di più questa indignata risposta internettiana.
Pertanto, prima di passare alla recensione del film, è bene avere a mente due concetti fondamentali. Il primo è appunto che i premi sono di per sé politici, comunicano più di quel che crediamo o vediamo e sono lo specchio limpido ed ineccepibile della società e del mondo (giusti o sbagliati che siano) a cui si riferiscono e in cui hanno luogo. Di conseguenza, possono essere sì contestati, giudicati, demonizzati, magari inneggiando allo scempio del politically correct, ma, alla fine della fiera, devono poi essere presi per ciò che sono. Anzi, sarebbe meglio e forse più proficuo analizzarli, comprenderli e contestualizzarli nel tempo e nello spazio di cui sono fieri portabandiera o feroci contestatori, per capire da che parte sta tirando il vento e decifrare lo stato di salute di un’industria, di una società, di un paese intero.
Da leggere in questi termini è anche il "furore last minute" di CODA nel corso di quest’ultima stagione dei premi. Non giriamoci tanto attorno: la pellicola di Sian Heder non è certo stata omaggiata per chissà quale ricchezza o profondità espressiva, originalità di contenuto, illusori intenti filantropici o grande nobiltà d’animo, ma fondamentalmente perché (e questo, a differenza dell’originale) gli attori principali del suo cast sono tutti sordi.
CODA è CODA non tanto per il suo spessore puramente cinematografico, quanto piuttosto perché serve ed è utile ad un’industria hollywoodiana che, nel suo voler essere sempre più inclusiva, popolare e democratica, ha individuato ed individua nel dramedy di Sian Heder una nuova via o, meglio, la vera via per un cinema davvero inclusivo. E, sia chiaro, in queste righe non è di nostro interesse spiegarvi il motivo per cui, secondo chi scrive, la scelta dell’Academy si possa ritenere più o meno giusta. Anzi, lasciamo ognuno di voi libero di trarre le proprie conclusioni. L'intento di questo nostro cappello è o, meglio, era cercare di esprimere un punto di vista, un’interpretazione soggettiva a riguardo di una questione di cui si dovrebbe e si sarebbe potuto discutere molto di più, se a capitalizzare le attenzioni di spettatori e lettori non fosse stato un certo schiaffo che, nel bene e nel male, è già entrato a far parte della storia degli Oscar.
Unitamente a ciò, questa premiazione assume ancor più senso e appare ancor più comprensibile se pensata nei termini di una “perfetta descrizione dei mutamenti di questi anni” [Gabriele Niola]. Mutamenti che sono poi interni tanto alla manifestazione in sé e per sé, quanto al cinema americano in genere. A tal proposito, CODA non è che la logica prosecuzione delle recenti vittorie da parte di film come Moonlight e Green Book, sintomo e riconferma di una Hollywood in cui, salvo stravolgimenti, è quantomeno improbabile pensare di tornare ai trionfi incontrastati di blockbuster kolossali, come Il ritorno del re o Titanic. A riprova di questo, basti pensare come, la scorsa domenica, un film magniloquente e mastodontico come Dune di Denis Villeneuve si sia aggiudicato, sì, il maggior numero di statuette, ma solo in categorie tecniche.
Fatto questo doveroso (e sentito) excursus, vi starete però giustamente chiedendo quale sia l’opinione di chi scrive sull’ultimo Oscar al miglior film. Un film che, è bene ribadirlo, segue le orme della giovane Ruby Rossi, adolescente a cui (lo possiamo intuire da alcuni passaggi) non è mai stata concessa un’infanzia ordinaria o quantomeno un minimo di libertà individuale. Unico membro udente di un’umile famiglia di pescatori originaria di Gloucester, nel Massachusetts, quest’ultima infatti è stata costretta sin da piccola a lavorare e dare un mano in mare al padre Frank e al fratello Leo, fungendo inoltre da interprete e traduttrice (nel linguaggio dei segni) quando richiesto. In tal senso, ogni scelta, ogni azione, ogni movimento che Ruby abbia mai compiuto nei suoi 17 anni di vita è sempre stato rivolto a favore e in funzione del bene familiare.
E lo è stato a tal punto che, quando decide di iniziare a cantare nel coro della scuola, concentrandosi dunque su qualcosa che è solo ed esclusivamente suo, che forse potrà offrirle la possibilità di un'altra vita al di là delle mura di casa e che il destino vuole non possa essere apprezzato, anzi nemmeno ascoltato dai familiari, questi ultimi minimizzano, leggono questo suo desiderio lampante di liberarsi dall’oppressione per certi versi egoista a cui si sente sempre sottoposta, come un banalissimo capriccio adolescenziale.
CODA è quindi un dramma dai buoni sentimenti, travestito da commedia amabile, solo superficialmente scorretta, anzi spesso puerile, che, pur puntando molto su ideali familiari e domestici, vuole ricordarci anzitutto l’importanza di un dialogo, pure muto e gestuale, e di una comprensione reciproca tra consanguinei, ma anche il valore delle proprie libertà individuali, dei propri spazi all’interno di qualsiasi rapporto, spiegandoci inoltre come la diversità sia soltanto una condizione, uno stato, un modo diverso di affrontare gli stessi problemi, i problemi di tutti.
Ebbene, come deducibile da queste righe, l'intreccio e la morale sono forse gli aspetti meno memorabili di CODA. Anzi, a dirla tutta, quello confezionato da Heder è un intreccio che, oltre ad essere abbastanza conforme allo script originale di Victoria Bedos, Thomas Bidegain, Stanislas Carré de Malberg ed Éric Lartigau, fa della propria semplicità e insieme di una narrazione convenzionale e conformista, ma ben ritmata, capace di coinvolgere, commuovere, intenerire, toccare un pubblico di riferimento molto vasto e flessibile, di per sé coerente con una parvenza da “innocuo film da domenica in famiglia”; una base solida su cui erigere e consolidare i presupposti della propria indiscutibile riuscita, i veri motivi di successo della pellicola.
Difatti, non è certo un mistero che a fare realmente la differenza in CODA sia per lo più l’attenzione che Sian Heder e la direttrice della fotografia Paula Huidobro dedicano ai gesti, all'espressività del volto e al linguaggio, ai significati, alla vivacità che li contraddistinguono, componenti ovviamente fondamentali per un'opera che vuole raccontare la sordità.
A cambiare le sorti di un film adorabile, costruito per piacere, che rimarrà nei cuori di molti (e non per il numero di premi ottenuti), ma che, malgrado presenti e sia tinteggiato qua e là da un paio di soluzioni efficaci, non ha poi molto da dire (pardon il gioco di parole), sono allora gli ottimi interpreti coinvolti, pervasi e uniti da una sinergia ed una chimica indiscutibili, tutti soggetti di un lavoro di casting azzeccatissimo. Partendo dall’ora premio Oscar Troy Kotsur, esilarante e travolgente nel ruolo di papà Frank, e dalla dimenticata e sorridente Marlee Matlin [che a suo tempo, nel 1987, fu la prima attrice sorda a vincerlo, un Oscar] come mamma Jackie, passando per la giovanissima Emilia Jones (un volto ed una personalità magnetiche da tenere bene sott’occhio), lo spigoloso e vichingo Daniel Durant e il dolcissimo Ferdia Walsh-Peelo, fino ad arrivare ad un buffissimo ma macchiettistico Eugenio Derbez nei panni del professor Bernardo Villalobos: ognuno, in CODA, così come la sua protagonista, riesce proverbialmente a trovare la propria voce, rivitalizzando e motivando un racconto che, a lungo andare, avrebbe potuto peccare di slealtà, ipocrisia, artificiosità.
Merito che però non ci esime dal riconoscere, e giudicare di conseguenza, il beffardo controsenso di una pellicola che ribadisce l’importanza di uscire dalla propria zona di comfort e dall’aridità di un pigro accontentarsi, ma che non riesce o non vuole, a sua volta, sottrarsi alle maglie di una formula più vicina non tanto ad un film così storicamente ed industrialmente importante (è anche il primo best picture distribuito in streaming), ma piuttosto ad una delle vittime dell’ipertrofica produzione Netflix. Solo con più cuore, capo e CODA.
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