TITOLO ORIGINALE: Les choses humaines
USCITA ITALIA: 24 febbraio 2022
REGIA: Yvan Attal
SCENEGGIATURA: Yvan Attal, Yaël Langmann
GENERE: drammatico
Un legal drama col ritmo (almeno inizialmente) da thriller. Un dramma bi-famigliare. Un racconto deterministico e moralistico sulle colpe dei padri e sulle ricadute che tali colpe hanno sui figli. Un film che pare voler determinare l’origine e le motivazioni di un atto di cui riconosce poi l’inconciliabilità delle molteplici versioni e percezioni, lasciando allo spettatore il compito di trovare la verità dentro sé stesso e le proprie convinzioni. Una messa a nudo della macchina giuridica e, parallelamente, della macchina cinematografica come costruttrice e insieme distruttrice di senso. Un discorso sul mondo dei social media e dei social network, sul clamore mediatico. L’ennesimo duro attacco alla facciata ipocrita e perbenista della medio-borghesia. Il ritratto di due personalità. Ma soprattutto un affaire de famille è L'accusa di Yvan Attal, che dirige la moglie Charlotte Gainsbourg e il figlio Ben Attal in un film, tra inchiesta giornalistica e racconto true crime, che mal riesce a sintetizzare le complessità di un'articolata base argomentativa, cadendo in inutili e pedanti verbosità e riducendo il tutto ad estenuanti frammenti di cine-tribunale mai incalzanti o ben ritmati da uno sguardo che, al contrario, sembra limitarsi a seguire indolente lo sbrogliarsi di una irresoluta ricerca delle verità.
Alzi la mano chi non ha mai visto almeno una puntata di Un giorno in pretura, il celebre programma televisivo diretto e condotto da Roberta Petrelluzzi che, dal gennaio 1988 ad oggi, ha fatto entrare migliaia di italiani nelle aule di tribunale, trasmettendo sugli schermi di tutta la penisola le immagini, i volti e i fatti dei principali processi della nostra storia giudiziaria e rivoluzionando, con la sua sobrietà testuale ed indiscutibile imparzialità narrativa, il modo di fare televisione, al di là del mero atto delittuoso.
Ora, nel caso vi steste chiedendo cosa c’entri questo breve excursus introduttivo su uno dei pilastri di Rai 3 con L’accusa - ottavo lungometraggio scritto e diretto dal franco-israeliano Yvan Attal, adattamento del premiato romanzo Les choses humaines di Karine Tuil - è presto detto. Probabilmente perché è proprio ad Un giorno in pretura che vi ritroverete a pensare mentre si srotolano davanti ai vostri occhi i 138 interminabili minuti di questo caso di stupro che diventa, con imbarazzante superficialità, manifesto contingente, equidistante ed imparziale, dunque paradossale e fondamentalmente sbagliato, sulla scia del #MeToo, della necessità sempre più evidente di una corretta educazione sessuale giovanile.
L’accusa di Yvan Attal vuole essere tante cose e, come si suol dire, chi tanto vuole… Elenchiamo: un legal drama col ritmo (almeno inizialmente) da thriller. Un dramma bi-famigliare. Un racconto deterministico e moralistico sulle colpe dei padri (da un lato, con la loro sessualità lasciva, instabile, talora morbosa e ben più spesso malsana, vissuta di straforo, lontana da occhi indiscreti e sempre col sapore del proibito su labbra, corpi e indumenti; dall’altro con una mentalità chiusa, retrograda, rigida, soggetta a costanti e anacronistiche imposizioni ed osservanze religiose) e sulle ricadute che tali colpe hanno sui figli. Un film che, a tal proposito, pare voler determinare l’origine e le motivazioni di un atto di cui riconosce poi la disarmante banalità, nonché l’inconciliabilità delle molteplici versioni e percezioni, lasciando allo spettatore il compito di trovare la verità dentro sé stesso e le proprie convinzioni. Una messa a nudo della macchina giuridica e, parallelamente, della macchina cinematografica come costruttrice e insieme distruttrice di senso, impressioni ed espressioni. Un discorso sul mondo dei social media e dei social network, sul clamore mediatico, sull’inquietante potere che le arene pubbliche e (teoricamente) libere di parola hanno sulla vita e il destino di ciascuno di noi. L’ennesimo duro attacco alla facciata ipocrita e perbenista della medio-borghesia (francese, in questo caso). Il ritratto di due personalità: quella dell’accusato, Alexandre Farel, figlio di Jean, un noto presentatore televisivo, e di Claire, una saggista politicamente attiva, ragazzo di buona famiglia, ben istruito, con grandi progetti per il futuro, apparentemente cortese e dolce, che nasconde però un rapporto complesso, violento, brutale con la propria sessualità; e quella dell’accusatrice, Mila, figlia del nuovo compagno della madre di lui (Claire), di origini meno abbienti, caratterizzata da una relazione parimenti problematica con l’erotismo e la sessualità appunto, tanto per colpa della fervida religiosità della madre (ebrea), quanto per via di traumatiche esperienze precedenti.
Più ironicamente, un affaire de famille: ad interpretare Alexandre vi è infatti il figlio del regista, un Ben Attal di per sé credibile e convincente, e, nei panni della madre Claire, la compagna (e, a sua volta, madre naturale dello stesso Ben) Charlotte Gainsbourg. Quest’ultima rappresenta la cifra divistica e più riconoscibile di un’opera che vorrebbe raggiungere le vette del cinema di François Ozon, imponendosi sulla scena come provocatrice, sconcertante ed oltraggiosa nei confronti del senso comune, ma che finisce per essere il suo contrario: un film perfettamente ed evidentemente di sistema, inserito in quello stesso apparato che tanto vuole smontare, scandaloso solo ed esclusivamente nell’uso, alla lunga anestetizzato, di turpiloqui vari, dettagli (verbali!) truci e moralmente rivoltanti e di un quadro patetico ed indecoroso della classe media, già tentato, con ben più successo, garbo e sofisticatezza, da decine di registi e autori.
E pensare che L’accusa avrebbe tutte le carte in regola per poter raggiungere appieno i propri obiettivi, evitando perlopiù di cadere nel madornale peccato di The Last Duel di Ridley Scott (qui infatti non c’è posto per La Verità). Ciò nonostante, più si avanza nel racconto, più emergono le problematicità di una messa in scena pigra e inerte agli stimoli del racconto, incostante e schizofrenica nella rappresentazione dei propri personaggi (vi basti sapere che si sfiorano i lidi del grottesco e del ridicolo, per poi ripiegare nella più assoluta drammaticità), dubbia in alcune sue soluzioni.
La fin troppo lucida (per raccontare Le cose umane, come recita il titolo originale) macchina, prima narrativa, poi polemico-moralistica, di Yvan Attal non riesce a sintetizzare bene e, soprattutto, in maniera cinematografica (al di là di qualche capriccio fotografico nei segmenti di ricostruzione del fattaccio), le proprie intenzioni filo-documentaristiche, tra inchiesta giornalistica e racconto true crime, e le complessità di una base argomentativa più consona ad un prodotto seriale, cadendo in inutili e pedanti verbosità e riducendo il tutto ad estenuanti frammenti di cine-tribunale mai incalzanti o ben ritmati da uno sguardo che, al contrario, sembra limitarsi a seguire indolente (appunto) e condiscendente (il che è pure peggio) lo sbrogliarsi della matassa, questa irresoluta ricerca delle verità.
Alla passata edizione del festival di Venezia - dove L’accusa è stato presentato fuori concorso - c’era e c’è stata un’opera che, più di tutte e meglio di questa puerile apologia dell’incomprensione, è riuscita a raccontare la violenza, un contesto sociale moralista e determinista e la sessualità e il corpo femminili. Si intitola La scelta di Anne.
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