TITOLO ORIGINALE: Qahremān
USCITA ITALIA: 3 gennaio 2022
USCITA FRANCIA: 22 dicembre 2021
REGIA: Asghar Farhadi
SCENEGGIATURA: Asghar Farhadi
GENERE: drammatico, thriller
PREMI: Grand Prix Speciale della Giuria al festival di Cannes 2021
Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria - ex aequo con Scompartimento n. 6 - al festival di Cannes 2021, Un eroe di Asghar Farhadi segna il ritorno del regista iraniano al suo paese d'origine, dopo l'infelice parentesi internazionale di Tutti lo sanno. Un eroe è l’ennesima dimostrazione della capacità creativa, compositiva ed espressiva di un regista che, nel panorama attuale, ha veramente pochi eguali. Un mondo filmico non così eclatante e perfetto come La conversazione e Il cliente, ma sempre e comunque un scrigno che lentamente (e agli spettatori più devoti) rivela il cinema di un autore lucidissimo ed irripetibile. Un cinema che, per spiegarci la complessità delle cose, racconta storie di uomini affannati e boccheggianti che salgono e scendono continuamente le scale di una verità che è sempre fuori scena.
Eroe. Termine di origine incerta che, nella religione, nella mitologia e nella filosofia greca, stava ad indicare un essere che si poneva su un piano intermedio tra l'uomo e la divinità. Nell'uso contemporaneo, un individuo dalle spiccate virtù morali quali il coraggio, l'abnegazione, l'accettazione di esporsi al rischio del sacrificio, a volte anche estremo, a vantaggio altrui o del bene comune. Nel e per l’ultimissimo film dell’iraniano Asghar Farhadi, Rahim (Amir Jadidi), uomo dal cuore buono, ma ciononostante ingenuo ed irresoluto, dal passato (per noi spettatori) fumoso, tuttavia immorale e peccaminoso quanto basta da renderlo una persona disprezzabile agli occhi della religione e della società iraniane.
Tra i primi a disprezzarlo vi è sicuramente Bahram, piccolo commerciante della zona e suo ex-suocero, che in passato ha prestato al ragazzo una quantità di denaro che questi però non è mai riuscito a risarcirgli. Ragion per cui il nostro è finito dritto dritto in prigione, dalla quale riesce ad uscire, di tanto in tanto, grazie a permessi di un paio di giorni, riuscendo così a riabbracciare la sorella, il cognato, i nipoti, ma anche e soprattutto il figlio Hossein e Farkhondeh, la ragazza con cui, un giorno, intende risposarsi. Proprio quest’ultima, durante uno di questi periodi di licenza, offre a Rahim la possibilità di ripagare tutti i propri debiti ed uscire da una situazione ormai insopportabile. Farkhondeh afferma infatti di aver trovato per caso una borsa contenente 17 monete d’oro e gli propone di venderle per ripagare i propri debiti.
Tuttavia, spinto da un incerto obbligo morale (o, meglio, dal segno di qualche presenza superiore), l’uomo decide di mettersi sulle tracce del proprietario di tutto quell’oro, dando il via ad una catena di eventi che lo trasformerà da eroe nazionale e modello da seguire, a bugiardo imperdonabile e vergognoso nel giro di poco più di una settimana.
Dopo l’infelice parentesi internazionale di Tutti lo sanno - dramma infarcito di tutti i leitmotiv tipici della filmografia del regista, ma troppo spompato nell’intreccio, con protagonisti Penelope Cruz e Javier Bardem -, con Un eroe, Asghar Farhadi torna alla sua terra d’origine, a mostrarci dunque, come solo lui sa fare, un lato inedito, vivace e personalissimo dell’Iran. Nel farlo però, non si mette in discussione più di tanto, anzi sembra quasi voler ricordarci perché tutti noi, da Una separazione in poi, siamo stati rapiti completamente dal cinema di questo talentuoso regista.
Una borsa che potrebbe magicamente risolvere ogni problema e la scelta di rispondere ad un preciso dovere civico o istintivo sono il pretesto ideale da cui Farhadi parte per costruire un dramma che riprende i (grandi) temi fondanti la sua poetica - qui affrontati anche nell’interessante ottica di un paese interconnesso alla occidentale, in cui il chiacchiericcio mediatico dei social media (tutti lo sanno, tutti lo vedono, tutti ne scrivono), l’immagine pubblica ed una reputazione facilmente cangiante sono una realtà che condiziona, plagia o, addirittura, distrugge vite - e li fonde con la silenziosa descrizione di un contesto socio-religioso che fa della moralità, di una fede incondizionata, del rispetto di usi e costumi ben precisi e di una pudicizia e perbenismo generali, i propri insopprimibili valori.
Il sospetto e la presunzione. L’umiltà e l’orgoglio. La colpa e la responsabilità. La stima e il retaggio. La delusione e l’effetto collaterale. La manipolazione artificiosa della realtà e quella conveniente delle proprie sfortune. La dialettica tra una Verità inafferrabile - la cui ricerca finisce per annientare e disorientare l’uomo, trascinandolo nel suo vortice di incertezze e deliri - e le(!) verità o, meglio, le versioni di verità avanzate dagli altri e, perché no, anche da noi stessi: dolorose, soffocanti, disonorevoli, dirompenti, nel bene e nel male. Tutto questo è Un eroe e, come sopra, il cinema di Asghar Farhadi.
Farhadi tenta dunque di condensare - ancora una volta, ancora meglio (forse non sempre) - tutti questi discorsi - annessi, connessi e suggestionabili tra loro - sotto l’ombrello e all’interno di un dramma di redenzione ed espiazione con tutte le situazioni del caso, i risvolti di sorta ed un ritmo crescente che, passata la prima ora, riabbraccia i lidi del thriller. Un eroe riesce però a smarcarsi rispetto a tutto ciò a cui potrebbe essere paragonato, imponendosi dunque come l’ultimo gioiellino di Asghar Farhadi [valevole d'un Grand Prix Speciale della Giuria ex aequo con Scompartimento n. 6 di Juho Kuosmanen], principalmente per il modo in cui questi lo scrive e mette in scena.
Basti pensare alla scelta oltremodo coraggiosa di rendere il protagonista della propria storia - il traino emotivo e narrativo - un personaggio a dir poco fastidioso che, per tutto il film, accoglie ogni nuova piega od ennesima ingiustizia come se gli fosse caduta dal cielo, talora autocommiserandosi, nascondendosi dietro un sorriso inebetito e alquanto snervante, oppure mostrandosi come ultimo pronipote dell’Antonio Ricci di Ladri di biciclette (come lui, Rahim arriva addirittura a sfruttare il dramma del figlio e della sua balbuzie per impietosire le persone e ottenere ciò che vuole), o ancora in quanto evidente frutto di una scrittura dalle intenzioni e dai processi ben precisi. Questi ultimi, trasposti poi in una composizione visuale che fa di tutto per porre il nostro protagonista continuamente in prigione, anche quando si trova all'esterno, rappresentandolo dietro reti metalliche, cancelli, grate...
Tali indicazioni - interpretate alla perfezione e con grande convinzione attoriale da un Amir Jadidi onnipresente (pure fin troppo) che funge sia da unico accesso espressivo per la decodifica psicologica di Rahim, sia da fattore determinante l’interesse e il gradimento spettatoriali - non sono che lo strato più superficiale di un’opera che, di Farhadi, non sarà forse il manifesto più eclatante o pregevole - non solo perché manca l’enigmaticità che contraddistingueva Il cliente, ma anche perché, se opportunamente asciugato e ridotto, sarebbe scivolato sicuramente meglio - ma è di certo una delle sue più (volutamente) frastornate e perseveranti.
Nondimeno, Un eroe è l’ennesima dimostrazione della capacità creativa, compositiva ed espressiva di un regista che, nel panorama attuale, ha veramente pochi eguali. Pochi come lui infatti sono in grado di scrivere in modo così scrupoloso, pratico ed affascinante: evidentemente memore di una lezione hitchcockiana, Farhadi confeziona qui un’altra sceneggiatura chirurgica, attenta ad ogni minimo particolare e ben dosata in tutti i suoi elementi. Lo stesso vale per il modo in cui l’iraniano dirige i propri attori: con una scrupolosità ed intensità talmente eloquenti da divenire quasi riverberanti; o per la vitalità, compattezza ed organicità con cui sa tratteggiare il palcoscenico della propria vicenda.
Un eroe ci ricorda infine come i mondi filmici di Farhadi (e quello Un eroe non fa eccezione) siano scrigni, proporzionalmente ridotti ma sociali e collettivi in termini di senso, che si offrono, agli spettatori più devoti, con una lentezza che, per i meno pazienti invece, potrebbe apparire a dir esasperante. Mondi che però, una volta apertisi, rivelano il cinema di un autore talmente lucido e consapevole da riuscire a sintetizzare, negli ultimi attimi della sua opera, all’incirca due ore di discorsi e contenuti. (E se la kafkiana inquadratura finale con doppio racconto è già tra le più incisive dell’anno, la scelta di porre il momento di massima e semplice umanità tra il rumore è un vero colpo di genio.)
Insomma, quello di Farhadi è un cinema che, per spiegarci la complessità delle cose, racconta storie di uomini affannati e boccheggianti che salgono e scendono continuamente le scale della verità. Che è iridescente. Mutevole. Parziale. Insufficiente. Sempre fuori scena.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.