TITOLO ORIGINALE: El buen patrón
USCITA ITALIA: 23 dicembre 2021
USCITA SPAGNA: 15 ottobre 2021
REGIA: Fernando León de Aranoa
SCENEGGIATURA: Fernando León de Aranoa
GENERE: commedia, drammatico
Javier Bardem è mattatore assoluto in una commedia sul mondo del lavoro, incentrata principalmente sulla figura del capo di un'azienda specializzata in bilance industriali, padre padrone benevole, ma anche capitalista spietato, ipocrita ed egoista. Decimo film dello spagnolo Fernando León de Aranoa, Il capo perfetto è la perfetta metafora della contemporaneità cinematografica. L'ultimo addendo di un cinema alla ricerca di “storie umane”, indipendentemente dalla natura del proprio finale e dalla moralità dei propri protagonisti. Di un cinema disinteressato al conflitto e alle risposte, che viceversa si diverte a dar vita ad icone tanto sfuggenti, quanto prevedibilmente fallaci, a personaggi perversamente grotteschi, a simulacri votati alla finzione. Il capo perfetto è la rappresentazione di un presente impossibile da definire e riassumere con esattezza, oggettività ed equità, ma solo cinicamente manipolabile. Un film sugli eterni prigionieri di un inferno artificioso e falsificato, fotograficamente travestito da paradiso.
Impegno. Equilibrio. Fedeltà. Sono queste le tre parole che campeggiano su uno dei muri delle Bilance Blanco, azienda diretta con rigore e passione da Julio Blanco (Javier Bardem), specializzata - manco a dirlo - nella produzione di bilance industriali. Niente più che una sintesi laconicamente efficace della filosofia della fabbrica; i tre principi cardine su cui si fonda l'ecosistema aziendale preservato, con gelosia ed avidità, dal signor Blanco.
Al tempo stesso, padre benevole e premuroso e capitalista spietato, ipocrita ed egoista, con le sue regole, le sue sfumature, il suo senso del dovere e la tendenza alla prevaricazione, l’amore per gli operai e l’inevitabile fine che giustifica i mezzi: l'amministratore di questa rinomata fabbrica spagnola e tutte le questioni che si troverà ad affrontare in vista dell'ispezione di un'importante commissione regionale sono il fulcro del racconto de Il capo perfetto, decimo film scritto e diretto dallo spagnolo Fernando León de Aranoa che, dopo aver infranto il record di candidature (20) ai Goya 2022, è stato scelto dall'Accademia delle arti spagnola come rappresentante della Spagna ai prossimi Oscar. Una scelta che, oltre a stupire tutti coloro che davano per certo la candidatura del ben più notevole Madres Paralelas di Pedro Almodóvar, la dice lunga sul messaggio che, così facendo, si intende lanciare.
Una scelta che diventa però comprensibile allo scoprire che la pellicola di De Aranoa si propone di per sé quale perfetta metafora della contemporaneità, specie di quella cinematografica. Infatti, come alluso, ad un certo punto da uno dei suoi stessi personaggi, Il capo perfetto non è che l’ultimo esemplare di un cinema alla ricerca di “storie umane”, indipendentemente dalla natura del proprio finale. Un cinema in cui è importante rintracciare l’umanità dei propri personaggi, con tutto ciò che da esso ne deriva.
Il nostro tempo - e, di conseguenza, il tempo de Il capo perfetto - è allora quello di un racconto filmico teso e maggiormente interessato ad un’analisi psicologica e comportamentale spettacolare, poiché scellerata, immorale, grottesca o ancora parodistica, di un potente, di un despota, di uno che, in passato, sarebbe stato definito in termini del tutto negativi, e che invece - anche qui - viene tramutato in un antieroe dotato di un carisma, di uno spessore e di una popolarità direttamente proporzionali ai dettagli oscuri ed amorali che ne caratterizzano la scrittura. Un'operazione che contribuisce a renderlo quasi simpatico e comprensibile agli occhi del pubblico.
Consapevole della proprie risorse, De Aranoa sceglie allora - con rigore, equilibrio ed una disarmante lucidità, coerenti dopotutto con il soggetto del proprio film - di puntare tutti i riflettori e far sì che ogni componente del proprio lavoro favorisca il Blanco imbolsito, bonario e piacione interpretato da un Javier Bardem a dir poco meraviglioso, capace di comunicare chiaramente la psiche e i processi del proprio personaggio anche solo con uno sguardo, un gesto, un tic. Di concentrare su di sé le attenzioni dello spettatore in ogni sequenza che lo vede protagonista.
Talmente è focalizzato, De Aranoa, sull’attore premio Oscar e sul personaggio da lui portato in scena, da sembrare quasi disinteressato a tutto ciò che lo circonda. Non vi è infatti alcun tipo di interesse o voglia di ampliare il focus del proprio racconto, esplorando le ragioni, i motivi e le vite degli "altri", dei meno fortunati, dei lavoratori - fedeli o insofferenti - che compongono l’ecosistema aziendale. Non bastasse, il dramma dei lavoratori, il conflitto tra padrone e dipendente, così come un barlume di denuncia dei comportamenti controversi, spesso disonesti ed ipocriti del signor Blanco, trovano la propria espressione - magari limitata ma indubbiamente irresistibile - nel vignettismo, nella caricatura, nell’ironia e nella risata amara, dettati e ricercati da una scrittura intelligentissima, dinamica, raffinata e spietata, sospesa tra il surrealismo delle situazioni e il realismo del contesto socio-lavorativo.
In modo non dissimile dal suo protagonista, De Aranoa è disposto a giocare sporco, a truccare l’equilibrio della bilancia di ciò che è convenzionalmente, discorsivamente e dialetticamente giusto e corretto, per favorire un’idea di cinema che è in lampante antitesi con quella che invece lo rese celebre quasi vent’anni or sono.
Difatti, quelli de I lunedì al sole (dramma - non commedia! - in cui si raccontava la dura lotta di un gruppo di disoccupati, su cui primeggiava, pure lì, un Javier Bardem eloquente ed incisivo) erano tempi diversi. Tempi in cui le immagini e il racconto cinematografico potevano trattare con la realtà e giudicarla con duro realismo, commossa partecipazione ed un dissenso infuocato e giustificato. Se lì ad ingraziarsi l’empatia del pubblico erano però i meno fortunati, i disgraziati, i reietti della società, in questo presente senza una via d’uscita o un qualsivoglia senso immediato, naturale o incontaminato delle cose, ad uscirne vincitore, ad essere il mattatore indiscutibile del racconto cinematografico, è appunto un padre padrone, a metà tra l'enigmatico e ambiguo Chigurh coeniano e lo charme inarrestabile di un Raoul Silva opaco ed incanutito, che, nonostante le difficoltà ed alcuni apparenti smacchi, non è mai e poi mai mostrato sotto una luce del tutto negativa.
Anzi, il Blanco di Javier Bardem - forse l’unico elemento, assieme alla scrittura di cui sopra, capace di elevare Il capo perfetto ad una quasi eccellenza - è sempre fatto passare come un marionettista malizioso, pungente, brioso e divertito, in quello che, per lui, altro non è che un gioco al massacro, le cui pedine sono i destini e le vite dei propri lavoratori e di tutto ciò e tutti coloro che si confanno ad essi. Un gioco velato di un’ipocrisia di fondo e di finti propositi filantropici.
Quello immaginato da De Aranoa ne Il capo perfetto è insomma un cinema che si diverte a dar vita ad icone tanto sfuggenti, quanto prevedibilmente fallaci, a personaggi perversamente grotteschi, a simulacri votati alla finzione. Rebus senza soluzione. Rappresentazioni di un presente impossibile da definire e riassumere con esattezza, oggettività ed equità, ma solo cinicamente manipolabile. Eterni prigionieri di un inferno artificioso e falsificato, fotograficamente travestito da paradiso. Pallottole di cui avvalersi, a proprio uso e consumo, per riequilibrare il benestare dell’azienda.
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