TITOLO ORIGINALE: Ariaferma
USCITA ITALIA: 14 ottobre 2021
REGIA: Leonardo Di Costanzo
SCENEGGIATURA: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella
GENERE: drammatico
Presentato fuori concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Terzo lungometraggio di Leonardo Di Costanzo, Ariaferma racconta del difficile rapporto di convivenza tra un gruppo di secondini ed uno di detenuti all'interno di un carcere che sta per essere dismesso. Un soggetto che avrebbe fatto gola ad un qualsiasi regista interessato a mettere in scena niente più che un thriller carcerario tesissimo, aperto alla denuncia e ad un eventuale dibattito, Di Costanzo lo sfrutta per dar vita ad un film che non si accontenta mai di ciò che di superficiale ha a sua disposizione, mettendosi viceversa alla ricerca di un qualcosa di più profondo, confidenziale, misterioso, ambiguo, spirituale ed esclusivo. Una messa in scena che appare sempre sul punto di implodere, rompere le righe e sfogarsi liberamente concretizza un racconto che altro non è che la logica continuazione del discorso poetico del suo regista. Un cinema post-beckettiano che diventa pure inaspettata parabola della pandemia. Un racconto sul prezzo di ciò che si è e sulla riscoperta del valore dell’umanità e di un contatto fisico e spirituale da tempo latente. Un dramma sospeso nel tempo e nello spazio da non perdere.
Ariaferma, quando si dice nomen omen... Infatti, è proprio su una condizione di completa immobilità e totale sospensione, di logorante apprensione ed incerta attesa, di estenuante tensione e potenziale esplosività, così come di ambigua quiete e stridente intervallo che il fu documentarista Leonardo Di Costanzo intavola questo suo terzo film da regista e sceneggiatore.
Recentemente presentato fuori concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia - dove è stato accolto con il plauso di gran parte della critica -, Ariaferma, quantomeno sulla carta, è abbastanza semplice: ambientata nel fittizio carcere sardo di Mortana (altro nomen omen), la pellicola segue le vicende di un gruppo di secondini, capitanati da tal Gaetano Gargiulo (Toni Servillo), a cui, quando la struttura sta ormai per essere dismessa, viene ordinato di rimanere comunque e fare la guardia a 12 detenuti, dal momento che il nuovo complesso a cui questi dovranno essere assegnati non è ancora pronto.
Inizia così per loro un periodo di convivenza dalla durata fumosa (la direttrice dice che “presto sarà tutto finito”, ma che cosa significa realmente “presto”?) che metterà a dura prova la disciplina fino ad allora imposta dai secondini e farà crollare la maschera di malvagità, perfidia e delittuosità (o forse no?) di alcuni carcerati, specie quella di Carmine Lagioia (Silvio Orlando), sibillino ed enigmatico boss malavitoso che si fa pian piano portavoce e leader del piccolo gruppo di delinquenti, iniziando inoltre ad intessere un peculiare rapporto con lo stesso ispettore Gargiulo...
Differentemente però da ciò che ci si aspetterebbe, un soggetto che avrebbe fatto gola ad un qualsiasi regista interessato a mettere in scena niente più che un thriller carcerario tesissimo, graficamente violento e (perché no?) aperto alla denuncia e ad un eventuale dibattito - sulle misere condizioni dei carcerati italiani all’interno delle strutture preposte, ovviamente -, Leonardo Di Costanzo lo sfrutta per dar vita ad un film che non si accontenta mai di ciò che di epidermico e superficiale ha a sua disposizione, mettendosi viceversa alla ricerca di un qualcosa di più profondo, confidenziale, misterioso, ambiguo, spirituale ed esclusivo. Una pellicola ben più peculiare, personale, simbolica e, proprio per questo, memorabile.
Allo stesso tempo però, Ariaferma non rinuncia certo al “grande contenitore” del genere, anzi, soprattutto nella prima ora (delle due), l’intenzione del regista sembrerebbe essere proprio quella di costruire un drama thriller sfibrante, angosciante e - per ciò che si vede e si sente - riuscitissimo, tutto giocato su una messa in scena che appare sempre sul punto di implodere, rompere le righe e sfogarsi liberamente. Tuttavia, man mano che prosegue nel suo racconto, la pellicola di Di Costanzo si afferma più che altro in qualità di logica continuazione del discorso poetico del suo regista, fatto di instabilità ed intervalli (non a caso il titolo del suo esordio al lungometraggio è proprio L’intervallo), sempre rivolto, citando l’approfondimento di Luca Mosso a lui dedicato, “alla ricerca del momento in cui tutto può cambiare”.
Quello di Di Costanzo e di Ariaferma è dunque un cinema post-beckettiano. Lo è già nel titolo che, così come go (va) e dot (fermo) di Aspettando Godot, accosta ad un termine (aria) legato al moto, alla fluidità e alla mutabilità, il suo contrario (ferma).
Forse non sarà l’arrivo di un esercito come ne Il deserto dei Tartari, quanto piuttosto l’arrivo e la possibilità di una nuova condizione esistenziale, di un mutamento di stato, di un movimento di vita a riportarci in una realtà (che, così come l’Italia, in Ariaferma sembra vicinissima ed imminente) in cui potremo essere finalmente e nuovamente liberi di agire, anche se rinchiusi nella cella di una prigione.
Intanto però, questa snervante attesa ci costringe a rivedere tutto ciò che fino ad allora davamo per scontato o innato, poiché figlio di convenzioni, imposizioni, preconcetti e di un ruolo sia lavorativo, sia testuale e cinematografico, chiederci chi siamo, perché e cosa abbiamo fatto per essere qui, se è vero che siamo diversi l’un l’altro (come ci tiene a ribadire puntualmente il Gaetano Gargiulo di Toni Servillo: “Tu stai in galera, io no”) o se, in fin dei conti, la nostra condizione di attesa ed isolamento la cancella, questa distinzione? E perché il Carmine Lagioia di Silvio Orlando tenta così ardentemente di fare breccia nella severità, intransigenza e lucido rigore del personaggio di Servillo?
Sono queste le domande che si prefiggono i personaggi di Ariaferma e che, di riflesso, si pone lo spettatore durante il dipanarsi della visione di Di Costanza. Domande che sono poi la conseguenza della necessità di immaginare un nuovo equilibrio sociale che deve e può passare attraverso una rinuncia alla diffidenza, al timore e ai contrasti ed insieme tramite una riscoperta del valore dell’umanità, di un contatto fisico e spirituale da tempo latente, così come latenti sono i ricordi dell’altrove (una parabola della pandemia?), o di una compassione e fratellanza che possono esistere soltanto quando l’istituzione non ci guarda, nei momenti più intimi e privati, al buio, quando si spengono letteralmente le luci di una struttura che - nelle sue crepe, nei suoi muri scrostati e nella ruggine che fiorisce imperterrita all’interno delle celle dei detenuti - concretizza e sintetizza alla perfezione la radiografia di uno Stato assente e fugace.
Nonostante i tanti interrogativi, Ariaferma porta però con sé anche innumerevoli certezze. Vedasi, ad esempio, una regia asciutta, rigorosa, imparziale e divisoria, talora dal taglio quasi documentaristico, una colonna sonora imprevedibile con cui - come fa ben notare Alberto Pezzotta nella sua recensione per FilmTV - Buñuel sarebbe andato a nozze, la fotografia del grande Luca Bigazzi, che, in alcuni frammenti, ricorda moltissimo quella di Carnera in ACAB e Suburra di Sollima, in altri invece rimanda fortemente alla serie tv di Gomorra (tra i nomi produttivi, del resto, c’è pure Sky Italia), oppure le interpretazioni da un cast ben amalgamato, su cui spiccano quelle di un Toni Servillo e di un Silvio Orlando in vesti del tutto insolite, svestiti del loro ruolo di attori e divi assoluti del cinema italiano. Il che non fa che donare ulteriore sincerità e, appunto, umanità al tutto.
Ciò nonostante, quella (la certezza) più grande di tutte riguarda però la generale riuscita e il fascino di Ariaferma - tra i migliori usciti dall’ultima edizione del festival veneziano - e del suo Purgatorio di anime tutte uguali fra loro, naufragate lì chissà perché. Un qui ed ora in cui tutto è fermo (stupende le prime inquadrature), sospeso nel tempo e nello spazio, con alle spalle il castigo e di fronte o, meglio, altrove la salvezza. Ma è veramente possibile salvarsi da ciò che si è o si è chiamati ad essere?
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