TITOLO ORIGINALE: Il mostro della cripta
USCITA ITALIA: 13 agosto 2021
REGIA: Daniele Misischia
SCENEGGIATURA: Antonio Manetti, Marco Manetti, Paolo Logli, Alessandro Pondi, Daniele Misischia, Cristiano Ciccotti
GENERE: horror, commedia
Tobia, un giovane ragazzo di Bobbio appassionato di cinema horror e fumetti di serie B, inizia ad indagare su una serie di strani eventi, molto simili, nelle dinamiche, a quanto descritto dall’autore bolognese Diego Busirivici nell’ultimo numero del suo fumetto Squadra 666.
A quattro anni di distanza da The End? L'inferno fuori, Daniele Misischia torna sul grande schermo con un nuovo orrore, questa volta, apparentemente più spazioso e spaziale, più areato in termini di linguaggio ed arioso a livello narrativo, ma su cui, nonostante tutto, grava ancora il temibile spettro di un mediocre ed inadatto Alessandro Roja rinchiuso all’interno di un ascensore, nel cuore di Roma. Infatti, superata una mezz'ora iniziale convincente ed inaspettatamente a fuoco, Il mostro della cripta lascia spazio a difetti sempre più opprimenti, ridondanti e fastidiosi, non ultimi una durata fin troppo consistente ed un racconto che, tolto qualche momento piacevole, procede a tentoni, mediante una svergognata ripetizione delle stesse formule, quasi secondo una logica episodica. Per fortuna c'è Lillo che, nel suo piccolo, riesce a ristabilire gran parte delle sequenze comprese nel terzo atto della pellicola. Il resto è un miscuglio non ben limato che perde il sostegno e l'interesse del pubblico già ad un'ora dall'inizio, altro che la rinascita dell'horror italiano.
Ci voleva veramente poco a fare meglio (ma anche peggio) di The End? L’inferno fuori, zombie movie quasi interamente ambientato in un ascensore, nonché prima grande produzione del regista romano Daniele Misischia. Un horror abbastanza al di sotto delle aspettative, narrativamente e formalmente ridondante, nullo in termini di angoscia o tensione e fin troppo caoticamente citazionista. Un film più simile ad una dimostrazione di cultura cinematografica che ad uno pseudo-Kammerspiel horror, ma ciononostante pregevole per il tentativo - perfettamente collocato all’interno di un’industria cinematografica italiana (allora e tuttora) in piena rinascita di genere - di riportare in auge uno dei filoni che più e, talora, meglio caratterizzarono il nostro cinema tra gli anni ‘60 e ‘80.
Oggi, quattro anni più tardi, Misischia torna sul grande schermo con Il mostro della cripta, una pellicola che, come forse avrete già intuito, è nettamente superiore alla predecessora. Un’opera apparentemente più spaziosa e spaziale (nel vero senso del termine), più areata in termini di linguaggio ed ariosa a livello narrativo, ma su cui - pur spostandosi nel tempo: il tutto si ambienta nell’estate del 1988; e nello spazio: a nord, in Emilia, più precisamente tra Bobbio e Bologna (e non solo) - grava ancora il temibile (e, da chi scrive, temuto) spettro di un mediocre ed inadatto Alessandro Roja rinchiuso all’interno di un ascensore, nel cuore di Roma.
Il film segue le vicende di Giò Spada (Tobia De Angelis), un giovane ragazzo, caratterizzato da due grandi passioni: da un lato, il cinema horror e la regia, dall'altro, i fumetti (rigorosamente di serie B e Z); e a cui, come tanti altri adolescenti, sta stretto il contesto sociale in cui è costretto a vivere e che deve sopportare per forza di cose.
Bobbio, la sua città d’origine, è per lui “il buco del culo del mondo”, un paese in cui si proietta per tre mesi Bianca di Nanni Moretti “per avvicinare i giovani al grande cinema”, i quali preferiscono però passare il proprio tempo libero in un sudicio bar/sala giochi, “che è più un bar”. Ma anche il luogo "in cui Bellocchio ha girato il suo primo film, I pugni in tasca", ma dove ciononostante ci sono una cinquantina di morti all’anno… probabilmente per noia. Un posto ed un ambiente, infine, in cui gli interessi e le passioni di quest’ultimo vengono prese sul serio soltanto da una ristretta cerchia di amici, dal momento che, anche sua madre, considera tutto ciò che fa un qualcosa al limite della porcheria o della ragazzata (un aspetto, quest’ultimo, che avremmo desiderato venisse approfondito maggiormente nel corso del racconto).
Un giorno però, questo “buco di culo del mondo” si tinge di rosso e Tobia inizia ad indagare su un inquietante mostro che pare abbia fatto di Bobbio la propria dimora, compiendo riti satanici e iniziando ad ucciderne gli abitanti. Uno scenario molto simile a quello descritto dall’autore bolognese Diego Busirivici (Lillo) nell’ultimo numero del suo fumetto Squadra 666, il preferito di Giò.
Perché riteniamo che Il mostro della cripta sia un prodotto “nettamente superiore” a The End? (non che ci volesse molto, ripetiamo)? Sostanzialmente, perché riesce nell’incantesimo e nell’affabulazione di cui il primo non disponeva e in cui non avrebbe mai potuto sperare. Perlomeno, nei suoi primi baluginii. Se poi tale incantesimo e tale affabulazione si fossero spinti oltre i 30 minuti iniziali, i toni di questa nostra recensione sarebbero stati sicuramente più lieti (e il voto finale si sarebbe alzato sicuramente di qualche punto). Al contrario, il vero “mostro” qui non è tanto la creatura orrorifica in sé, quanto piuttosto ciò in cui si tramuta la pellicola e, insieme, la china discendente che abbracciano racconto, messa in scena ed esperienza di visione, una volta superati questa fantomatica prima mezz'ora.
Una sequenza iniziale che pare quella di un poliziottesco o horror fatto come Dio comanda: con la giusta tensione, i giusti punti macchina e la giusta atmosfera; o, altrimenti, il prologo dell’imminente Diabolik dei Manetti Bros. (sensazione giustificata dal fatto che questa sequenza è stata diretta proprio dal coppia di registi - qui impegnati sia in veste di produttori, sia di sceneggiatori. Un contributo forse fin troppo manifesto), dà il via ad un segmento di presentazione di luogo, ambiente e personaggi che, pur rifacendosi pesantemente, nei toni e nella composizione registico-narrativa dell’ambientazione, e citando, nella scenografia e negli stessi oggetti di scena (come la bicicletta, ad esempio), cult quali I Goonies, E.T., Stand by Me ed IT (e quindi anche l’opera di Stephen King) e revival nostalgici, poi fenomeni di culto, come la serie Stranger Things; si rivela convincente ed incredibilmente delizioso.
I personaggi (villain esclusi) funzionano ed incontrano l’immedesimazione dello spettatore, il racconto intriga ed appassiona, l’atmosfera (sospesa tra avventura spielberghiana e "fumettazzo" di serie B), il contesto storico-culturale è incredibilmente a fuoco e la messa in scena è svincolata da tutti quei fronzoli ed inutili estetismi che contraddistinguevano quella dell’esordio di Misischia.
Poi però, superata la sequenza in cui Tobia e l’amico Alberino (Nicola Branchini) entrano nella cripta della chiesa di paese e il rapimento ed uccisione di una ragazza del posto, la pellicola inizia ad accartocciarsi su sé stessa e paradossalmente ad esaurire i pregi della prima mezz’ora, i quali finiscono, alla lunga, per convertirsi e sommarsi, a loro volta, ai difetti già presenti. Difetti che quindi, con il procedere del racconto, iniziano a moltiplicarsi, a farsi sempre più insistenti e a cadere nelle infauste perversioni che già infestavano The End?.
Pertanto, se inizialmente potevano dare noia nella misura in cui sembravano quasi soffocare la personalità e la natura potenzialmente autoriale del prodotto, oltrepassati questi sventurati 30 minuti, le innumerevoli citazioni cominciano a diventare inconsistenti, ridondanti e più vicini a facili scappatoie atte a riparare e colmare delle evidenti mancanze in sede di sceneggiatura. Similmente, la messa in scena, prima sincera e compatta, ritrova invece il caos e la disomogeneità compositiva, il futile estetismo e i tanto amati (da Misischia) commenti sonori ad accompagnamento ed accento di panoramiche a schiaffo, raccordi e transizioni alquanto dubbie.
A peggiorare ulteriormente il tutto, ci pensano una direzione tutt’altro che esaustiva o bilanciata degli attori (salvo forse Amanda Campana e Lillo), i quali, con le loro interpretazioni, costituiscono e avrebbero potuto costituire l’unica speranza di riabilitazione di un manipolo di personaggi monotoni, prevedibili e perfettamente incastonati all’interno di ruoli precompilati, sempre poiché citazionisti di una precisa drammaturgia e di un determinato modo di scrittura; ed un racconto che, tolto qualche momento piacevole, da metà in poi, procede a tentoni, mediante una svergognata ripetizione delle stesse formule (ad esempio, quella del… “presentami il tuo pusher”, “questo ha iniziato a farsi”), quasi secondo una logica episodica.
Demerito, quest’ultimo, di un montaggio - ad opera di Federico Maneschi - dall’azione fin troppo tangibile e conservativa (il film è decisamente troppo lungo e ritmicamente farraginoso), nonché privo di qualsivoglia sensibilità circa il giusto respiro o, viceversa, la necessaria sintetizzazione di determinati momenti. In parole povere, castrante nei confronti di scene e sequenze che avrebbero necessitato di maggior enfasi e fiato narrativo, indulgente invece nei riguardi di altre che avrebbero dovuto essere più sferzanti e d’impatto.
Per non parlare infine di una computer grafica prevedibilmente posticcia (quella della lucertola e del fuoco delle armi, in particolar modo) e dei villain, eccessivamente sopra le righe ed oltremodo ridicoli, tenuti - probabilmente da contratto - ad esprimere, sempre e comunque a voce alta, le proprie intenzioni e i propri piani. (Ormai lo sappiamo, l'uso intelligente del silenzio nel cinema è virtù di pochi.)
Nemici dal volto interessante, ma dall’attuazione pessima - come quello, assolutamente insopportabile, interpretato da Giovanni Calcagno -, che, se scritti e trasposti con maggior cognizione, avrebbero potuto essere la chiave di volta di quello che, a sua volta, (solo inizialmente è e) avrebbe potuto essere il maggior pregio della pellicola. Ovvero la commistione potenzialmente ed intellettualmente stimolante tra horror e commedia.
Infatti, se The End? L’inferno fuori e il suo prendersi dannatamente sul serio avevano come unico esito una comicità involontaria che lasciava poi spazio all’estenuazione, con Il mostro della cripta si ride. Talvolta, anche di gusto. In questo caso, il merito è tutto di Lillo, della sua abilità di imporsi a forza sulla scena e del suo potere salvifico (qui cruciale) nei confronti di siparietti, quando non di quasi tutte le sequenze, altrimenti anonime e piatte, che compongono il terzo atto della pellicola (quello in cui Il mostro della cripta fonde I Goonies e Stranger Things con l’horror provinciale e folkloristico di Pupi Avati).
Tuttavia, Lillo e la chimica che intrattiene con il resto del cast (malgrado una scrittura non sempre brillante del suo personaggio) non bastano a risollevare uno sviluppo e dunque un film che perde il sostegno e l’interesse dello spettatore già ad un’ora (di due) dall’inizio. Colpa, ancora una volta, dell’inconsistenza scenica dei vari “nemici” che di fatto annulla ogni barlume di tensione narrativa od emotiva, ma anche di una sceneggiatura che, parimenti al modo in cui integra tutte le varie citazioni, non riesce a fare del mix commedia - horror un qualcosa di coerente ed omogeneo, di particolare ed entusiasmante, di veritiero ed evocativo.
Nella speranza che non valga la massima del “non c’è due, senza tre”, Il mostro della cripta è, in definitiva, un insufficiente, ma più sincero (di The End?) mostro di Frankenstein che, seppur fautore di momenti e scenari che donano al pubblico uno spiraglio su ciò che avrebbe potuto essere (la scena dell’edicolante, in tal senso, è oro colato, così come il rapporto paterno-attoriale tra Lillo e Tobia), si mostra come il risultato di un miscuglio non ben limato tra le varie personalità che ne hanno composto la sceneggiatura e guidato la produzione.
A questo giro però, non ci sono premi "per lo sforzo”, snobismi od “incomprensioni del senso del film” che tengano. Infatti, sarebbe anche ora di riconoscere che il revival non è e non deve essere necessariamente sinonimo di risparmio e di sottrazione (vedasi quello Stranger Things molto caro allo stesso film di Misischia). Oppure, che una rinascita del cinema di genere in Italia è e sarà possibile non tanto attraverso nostalgia, esercizi di stile o la (fallita) ricostruzione cinefila - in questo caso - dell’horror anni ‘70-‘80, quanto piuttosto facendo ricorso e sviluppando concept, soggetti e personaggi che paiano personali (e non frutto di rifacimento o citazione di un qualcosa che tutti amano), che interessino e che sappiano quindi riconquistare il grande pubblico.
Purtroppo, Il mostro della cripta non risponde minimamente a questa visione, proprio perché in proverbiale citazione ed inevitabile misurazione con film di quarant’anni fa semplicemente irripetibili sia perché entrati a forza nell’immaginario collettivo, sia perché appartenenti ad una cultura e ad un modo di fare cinema (di genere) che, in quegli anni, ha saputo inventare e reinventarsi. Un’abilità che una pellicola dal gusto inspiegabilmente amatoriale (un po' come i corti creati da Giò), la cui personalità potrebbe essere riassunta nelle camerette dei suoi protagonisti, che cita due volte la stessa scena di Shining (il che è improponibile), portando per giunta chi scrive a detestare la musica dei Blue Oyster Cult, non potrebbe mai possedere.
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