TITOLO ORIGINALE: La terra dei figli
USCITA ITALIA: 1 luglio 2021
REGIA: Claudio Cupellini
SCENEGGIATURA: Claudio Cupellini, Guido Iuculano, Filippo Gravino
GENERE: drammatico, avventura
In un' Italia post apocalittica, un giovane orfano si mette in viaggio alla ricerca di qualcuno che riesca a leggere le parole contenute all'interno del quaderno del defunto padre.
Claudio Cupellini fa il suo ritorno al grande schermo con la trasposizione de La terra dei figli, una delle graphic novel più amate e riconosciute di Gipi. Il risultato finale è un road movie post apocalittico con tinte da fiaba dark garroniana (a cui la pellicola deve moltissimo) che fa del principio della sottrazione il suo principale mantra. Difatti, se in alcuni suoi passaggi narrativi La terra dei figli si distacca dalla controparte cartacea, è nella gestione dei tempi diegetici e nella via del realismo che Cupellini dona allo spettatore una trasposizione sensazionalmente assimilabile al fumetto, asciugando del tutto la drammaturgia e lo spettacolo, riducendo all’essenziale i vari scambi di battute, sfruttando con parsimonia l’azione emotiva del commento musicale, relegando il lavoro di costruzione di toni ed atmosfere ai rumori ambientali e valorizzando tutte le anime compositive della produzione. Un'opera quindi che, nonostante gli evidenti difetti e forte anche di un cast ben assortito - seppur non sempre sfruttato a dovere -, mantiene le aspettative e promesse che ci si aspetterebbe da un film italiano di genere che sperimenta con un filone, quello post apocalittico, da sempre patria potestas di un’altra concezione della settima arte. Solo una domanda domina ed insidia la visione: a chi è rivolto La terra dei figli?
Sulle cause e i motivi che portarono alla fine si sarebbero potuti scrivere interi capitoli nei libri di storia. Ma dopo la fine nessun libro venne scritto più.
Con queste poche parole: laconiche ma, al contempo, estremamente significative rispetto al senso ultimo dell’opera; si apre La terra dei figli, graphic novel tutta italiana di Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, uno dei fumettisti nostrani più universalmente amati e riconosciuti. Un romanzo a fumetti - che, nel 2016, quando uscì, fece letteralmente impazzire i critici francesi, vincendo numerosi premi, tra cui quello per il miglior fumetto di fantascienza al festival fantascientifico Utopiales - che, a partire dai pilastri imprescindibili della letteratura (Io sono leggenda di Richard Matheson, La strada di Cormac McCarthy, L’ombra dello scorpione di Stephen King) e del cinema (I figli degli uomini di Alfonso Cuaron, The Road di John Hillcoat, Mad Max: Fury Road di George Miller) post apocalittici, catapulta il lettore in un futuro imprecisato, in cui, per non si sa quale motivo, l'umanità è ormai al tracollo.
All'interno di questo mondo: disastrato, maleodorante e putrido, regredito alla bestialità, in cui nulla e nessuno è più sicuro, in cui parole come “fiducia” sono morte da un pezzo e dove gran parte dei genitori ha preferito uccidere i propri bambini piuttosto che farli vivere in un tale inferno; La terra dei figli segue le vicende di un padre e dei suoi due figli che vivono in una baracca in riva a un lago e lottano per la sopravvivenza.
La vita del trio cambierà radicalmente alla morte dell’adulto, il quale lascia in eredità ai due fratelli soltanto un quaderno di pensieri sulla vita “prima” e “dopo” e che questi, in quanto analfabeti, non sono assolutamente in grado di decifrare. Ha così inizio un viaggio impervio e pericoloso nel “mondo esterno”, alla ricerca di qualcuno che sappia leggere questo quaderno e gli riveli così la vera faccia di un padre severo e distaccato da che ne hanno ricordo.
A distanza di cinque anni dalla sua prima pubblicazione, è con una trasposizione in parte autosufficiente, ma ciononostante rispettosa dell’anima e del senso della graphic novel di Gipi che Claudio Cuppellini (Una vita tranquilla, Alaska) fa il proprio ritorno sul grande schermo. Un adattamento, quest'ultimo, che il veneto fa camminare sui fili del racconto di formazione, del road movie post apocalittico (come nel caso del già citato The Road) e della fiaba dark garroniana. Il che non è certo un caso. D'altronde, Cupellini si è già misurato con le atmosfere del cinema di Garrone, essendo egli uno dei registi di punta di Gomorra - La serie: uno dei prodotti italiani di maggior successo (nazionale ed internazionale) degli ultimi anni, basato - oltre che sull’omonimo romanzo-inchiesta di Roberto Saviano - sul capolavoro del regista capitolino, pietra imprescindibile e bussola del cinema italiano contemporaneo e della sua corrente rinascita.
Gomorra e, nello specifico, il lavoro che Garrone compie su luoghi, ambientazioni e sui personaggi che si muovono ed agiscono in suddette ambientazioni - proposte e rappresentate dalla macchina da presa in maniera realistica, sgraziata e magicamente disgustosa - non è però la sola forma d’ispirazione della regia e dell’estetica de La terra dei figli. Infatti, un altro grande modello preso a guida da Cupellini è senz’altro l’amore dell'autore capitolino per le fiabe nere. Si recupera pertanto la costruzione e caratterizzazione di un mondo del tutto simile al nostro, ma percettivamente stravolto mediante una valorizzazione registica di tutti i vari mestieri (partendo dalle scenografie, passando per trucco e parrucco, fino ad arrivare ai costumi); e che deve gran parte della sua riuscita a comprimari e/o personaggi secondari esteticamente memorabili - poiché esuberanti e pittoreschi - ed interpretativamente suadenti.
Mondi, quelli di grandi opere del cineasta come L’imbalsamatore, Il racconto dei racconti, Dogman e, addirittura, la trasposizione - autoriale, ma rispettosa dell’opera originale e della sua essenza vernacolare - del Pinocchio di Collodi; che scardinano le regole del nostro, riuscendo anche a sorprendere, ma che ciononostante non riescono a distaccarsi dalle urgenze estetiche e compositive di un "realismo magico", che, a sua volta, finisce per essere la vera nota distintiva e caratteristica degli stessi e delle pellicole a cui questi ultimi fanno da sfondo e contesto.
Un "realismo magico" che, se in Garrone si converte nel principale segno caratteristico di una poetica ben precisa e ben delineata, in Cupellini e ne La terra dei figli - che, ripetiamo, a Garrone devono moltissimo - suona più che altro come un’emulazione congrua, ma fin troppo evidente e, pertanto, impossibile da classificare né come elemento peculiare né come aspetto totalmente inedito.
Il riferimento a Pinocchio è tutt'altro che casuale, in quanto l’avventura del Figlio [una delle succitate libertà che si prende il film di Cupellini è proprio la diminuzione del numero di protagonisti, che da due diventano uno] in un mondo in cui vedere un bambino o, comunque, un ragazzino è cosa rara, coincide - certo con i dovuti accorgimenti e in modo molto più violento e feroce - con il viaggio morale (al fine di imparare a comportarsi e diventare così “un bambino vero”) del burattino di Collodi nel mondo degli adulti.
Ebbene, quello del Figlio non è tanto un viaggio di formazione in sé per sé, quanto più un percorso di presa di coscienza, di comprensione, di crescita umana e (soprattutto) emotiva e di rincontro con il padre in un’Italia che, similmente a quella di Pinocchio, appare riconoscibile fino ad un certo punto, specie a causa della lingua e delle inflessioni dialettali degli attori e di alcuni suoi paesaggi (più nel film di Garrone, che in quello di Cupellini).
Tuttavia, così come nella già citata trasposizione garroniana, la personale vicenda del protagonista passa ben presto in secondo piano e non costituisce quasi mai l’elemento di principale affabulazione del racconto. Manco a farlo apposta, sono infatti il mondo, i suoi abitanti, le sue regole e le sue insidie ad affascinare e rapire (e, nel caso di Cupellini, a garantire un barlume di partecipazione da parte del)lo spettatore e ad esprimere il valore e il peso della stessa odissea intrapresa ed affrontata da suddetto protagonista.
Un protagonista, quello de La terra dei figli, anonimo, "periferico" ed oggettivizzato per gran parte del tempo, ma che, una volta venuto a conoscenza dei pensieri e della vera natura del padre, viene subito rimesso in discussione e - con una delle sequenze migliori e più suggestive della pellicola - si riabilita in quanto tale e in quanto titolare dell’attenzione e dell’empatia del pubblico. Eppure, come suggerito poco sopra, prima di offrirsi in quanto protagonista assoluto, il Figlio delLa Terra dei figli è appunto il tramite attraverso cui Cupellini introduce e caratterizza il mondo diegetico, sottoponendo allo spettatore una galleria di figure bizzarre, singolari e stravaganti, ognuna rappresentante - come nella migliore tradizione post apocalittica - una reazione, una risposta ed un modo diverso di affrontare la tragedia, il lutto, l’armageddon, la morte dei propri cari (anche di coloro che gli stessi hanno ucciso per pietà).
In tal senso, il personaggio che, più di tutti, concentra in sé questo annichilimento e questa apocalisse umana, sociale ed emotiva è il boia interpretato da un Valerio Mastandrea semplicemente formidabile ed unico, di cui (ri)scopriamo, ancora una volta, l’incommensurabile talento espressivo e che “recita con corde mai sentite senza imitare nessuno”, lavorando di sottrazione e riuscendo a bucare memorabilmente lo schermo, nonostante il misero screen time.
A completamento della “fauna” di questo mondo garroniano - fatto di elementi contemporanei abbandonati, in disuso e assorbiti dalla natura che diventano pilastri di una civiltà sconosciuta, decadente e decaduta, e di ambienti paludosi “da Louisiana che invece sono l’Italia” -, seguono poi una Valeria Golino più misurata e consueta nei panni di una strega che vive, parla e si circonda di cose morte, fungendo da “figura materna” ed ammonitrice per il Figlio; Franco Ravera e Maurizio Donadoni in una versione post apocalittica e sessualmente pervertita del Gatto e la Volpe; un Fabrizio Ferracane iniziatico, anche se forse mai abbastanza efficace; un Paolo Pierobon promettente, ma mal sfruttato; ed, ultimo ma non per importanza, un Leon De La Vallée (nel ruolo del Figlio) ottimo ed interpretativamente loquace, ma che avrebbe potuto regalare sicuramente qualcosa di più.
Il fatto che Valerio Mastandrea sia l’elemento più riuscito, nonché più inedito del cocktail di stimoli ed influenze diretto e composto da Cupellini & co., è probabilmente dovuto al fatto che l’attore capitolino è quello che più di tutti ha compreso ed interiorizzato nella sua prova il principio di sottrazione abbracciato e propugnato tanto dalla graphic novel di Gipi, quanto dalla trasposizione in essere. Difatti, se in alcuni suoi passaggi narrativi La terra dei figli si distacca dalla controparte cartacea, è nella gestione dei tempi diegetici e del ritmo e nella via del realismo che Cupellini, assistito in sceneggiatura da Guido “Romulus” Iuculano e da Filippo “Il primo re” Gravino, dona allo spettatore una trasposizione pedissequa e sensazionalmente assimilabile all’opera a fumetti.
Il cineasta infatti asciuga del tutto la drammaturgia e il naturale spettacolo verso cui propenderebbe un soggetto simile, riduce all’essenziale i vari scambi di battute, sfrutta con parsimonia l’azione emotiva, quando non commovente, del commento musicale composto da Motta, relega il lavoro di costruzione di toni ed atmosfere ai rumori ambientali - che, in numerose sequenze (altrimenti silenti), arrivano addirittura a farla da padroni -, inoltre, valorizza (come affermato sopra) tutte le anime compositive della produzione, facendo buon uso anche di effetti speciali e visivi.
Tutti aspetti, questi ultimi, di grande ed innegabile pregio - a composizione di una regia armoniosa e calibrata anche quando finge di non esserlo, che trova un compromesso tra l’epica affabulatoria di un universo narrativo dalle dimensioni potenzialmente vastissime e la spigolosità di un racconto e di una messa in scena che richiedono un notevole sforzo allo spettatore - che fortunatamente correggono e compensano una trattazione (ancora) pavida ed insicura della violenza, sia essa fisica o, soprattutto, psicologica. Un vero peccato.
Seppur condizionato da una serie di difetti tutt’altro che trascurabili - non ultimi la somiglianza fin troppo eclatante con lo stile e la poetica di Garrone (che ne pregiudica inesorabilmente le possibilità espressive), una durata che si fa sentire ed un finale monco e frettolosamente costruito -, La terra dei figli mantiene tutte quelle aspettative e promesse che ci si aspetterebbe da una trasposizione di una delle più grandi opere di Gipi e, in particolare, da un film italiano di genere che, così come la coeva Anna in ambito seriale, sperimenta con un filone, quello post apocalittico, da sempre patria potestas di un altro tipo ed un’altra concezione della settima arte.
Allo stesso tempo però, La terra dei figli evidenzia anche uno dei problemi più sostanziali e dall’urgente risoluzione dell’attuale cinema nostrano, soprattutto quando si parla di film di genere. Per tutta la durata del racconto di Cupellini infatti, la domanda che più ha infestato la mente e il pensiero di chi scrive è la seguente: a chi è rivolto La terra dei figli? Viste le premesse, di primo acchito si potrebbe rispondere: ai giovani, ossia a coloro che più masticano e hanno familiarità (vuoi per le loro abitudini seriali e/o videoludiche) con contesti post apocalittici et similia. Tuttavia, ci sembra oltremodo implausibile che un teenager abituato a tutt’altre maniere e toni di racconto possa apprezzare la smisurata dilatazione temporale e i numerosi momenti contemplativi di un film fortemente autoriale come La terra dei figli.
Un’opera palesemente rivolta ad un pubblico giovane è costretta pertanto a sperare nell’interesse e nelle preferenze di visione di quella fascia di pubblico: gli adulti e, nello specifico, la terza età; che è poi l’unica che, ora come ora, più sta dando una chance ai nuovi prodotti del cinema italiano. Dunque, anche quando - come in questo caso - il "nuovo" cinema italiano avrebbe potuto dar vita infine ad un (altro) prodotto di genere duro e puro, volto primariamente ad una (ri)fidelizzazione del pubblico (marketing e campagna promozionale permettendo), ecco che si preferisce puntare invece sull'esclusività e su un intellettualismo certo pregevole e coraggioso, ma controproducente rispetto a quello che la pellicola avrebbe dovuto e potuto essere.
In tal senso, la risposta alla domanda posta sopra potrebbe essere “tutti e nessuno”, a riprova di un cinema, sì, in fase di rilancio, ma che, all’infuori di festival e premi - vuoi poiché spesso autorialmente tronfio e fintamente giovane, vuoi poiché privo di un target di riferimento ben preciso -, non riesce (e, di questo passo, non riuscirà) a ritrovare il consenso del pubblico nella sua interezza (e non solo di quella nicchia consueta e claustrofobica). Soprattutto, delle nuove generazioni.
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