TITOLO ORIGINALE: Rifkin's Festival
USCITA ITALIA: 6 maggio 2021
USCITA SPAGNA: 25 settembre 2020
REGIA: Woody Allen
SCENEGGIATURA: Woody Allen
GENERE: commedia, sentimentale
Un ex professore di cinema accompagna la moglie, addetta stampa di un giovane regista francese affascinante e di grande successo, al festival del cinema di San Sebastián, poiché sospettoso di una possibile tresca tra i due. Il viaggio si tramuterà però in un’opportunità per riflettere sulla sua vita e il suo operato, sulla propria identità, sul contesto cinematografico attuale e sul futuro, ma anche e soprattutto per venire a capo con i propri demoni interiori e la propria vecchiaia e affrontare la morte.
Primo film (e 49° della sua ultradecennale filmografia) a patire le conseguenze dirette del suo attuale esilio produttivo ed artistico dalla madrepatria, Rifkin's Festival potrebbe apparire ai più come “il classico film di Woody Allen”. Tuttavia, dietro una trama esile e leggera, quasi ridondante se contestualizzata nel corpus alleniano, ed una sceneggiatura che non colpisce o stupisce più di tanto, l'ultima fatica (sicuramente minore) del newyorkese presenta un lato visivo e visuale delicato, dai procedimenti (in)visibili e dalle vene (pedissequamente) citazioniste, caratterizzato ed irrobustito dal lavoro di un Vittorio Storaro in gran forma. La sentita riflessione di un uomo che, alla bellezza di 85 anni, percepisce l’inevitabile incedere della parola Fine; di un artista diviso tra un passato di gloria, un presente infausto ed un futuro nebuloso, il cui unico punto fermo è uno spassionato amore per la settima arte e per il proprio mestiere di narratore ed umorista.
Il successo è per noi la morte dell’intelletto e dell’immaginazione.
Così sosteneva il rivoluzionario autore, poeta e drammaturgo irlandese James Joyce nel suo Ulisse: opera tra le più significative della letteratura novecentesca, di cui costituisce contemporaneamente uno spartiacque ed una pietra miliare (per la genesi del romanzo moderno), per via del suo stile narrativo inconsueto e talora di difficile comprensione.
Come forse saprete infatti, il romanzo sfrutta la tecnica del “monologo interiore” (con cui Joyce dà vita e delinea un vero e proprio flusso di coscienza, in cui i pensieri del protagonista scorrono senza alcuna punteggiatura, per definire la contemporaneità e l'intricato procedimento cognitivo che compone i processi mentali dell'io narrante) per raccontare la giornata, il 16 giugno 1904, di una manica di abitanti di Dublino. Nello specifico, di Leopold “Ulisse” Bloom, agente pubblicitario ebreo piccolo borghese tradito dalla moglie che vaga per la città alla ricerca di un modo per prendersi la sua rivincita e tradirla a sua volta, in quella che è una sorta di riproposizione moralizzata dell’Odissea omerica (da qui il titolo): un viaggio con cui il protagonista costruisce la propria identità, traendo qualcosa da ogni incontro e dalle diversità con cui viene in contatto, senza però risultarne annientato o assorbito.
Leopold è un uomo comune, debole, inquieto e abbastanza inconcludente, attraverso la cui figura l’autore riesce a descrivere uno spaccato ed un’analisi della sua esistenza monotona, afflitta da pettegolezzi e dal pregiudizio antiebraico, così diffuso nella cattolicissima Irlanda. Unitamente a ciò, in quanto ebreo, questi è esule per antonomasia, rinnegato dagli uomini e dallo Stato.
Una perenne condizione di esilio ed emarginazione, quella di Leopold Bloom e del popolo ebraico nel corso dei secoli, con cui James Joyce si identificava perfettamente quando, nel 1914, iniziò a scrivere il suo Ulisse (l’autore si trovava infatti a Trieste in seguito ad un confino autoimposto), e in cui, mai come oggi e per sua stessa ammissione - vedi l’autobiografia A proposito di niente -, si rivede il pluripremiato regista, sceneggiatore, attore, scrittore e commediografo Woody Allen.
Difatti, successivamente al ritorno sulle scene delle accuse di molestie ai danni della figlia Dylan Farrow e alla conseguente azione retroattiva e presa di distanza - da lui e dal suo cinema - da parte di Hollywood e addetti ai lavori (da Kate Winslet a Timothée Chalamet, da Greta Gerwig a Joaquin Phoenix), “il più europeo” [L'Universale Cinema - Garzanti, 2003] tra gli autori statunitensi è adesso una sorta di James Joyce dei tempi nostri: reietto e ripudiato dal suo paese d’origine e dunque costretto, ora più che mai, a cercare consensi, capitali, location, troupe e cast per le proprie opere in quell’Europa dove i suoi film hanno sempre avuto maggior successo ed un’accoglienza più calorosa ed entusiastica.
La prima opera del cineasta (e 49ª della sua sterminata filmografia) a patire le dirette conseguenze di questo suo esilio produttivo ed artistico è Rifkin’s Festival, co-produzione Usa-Spagna-Italia che, con Joyce e il suo Ulisse, condivide più di un punto di contatto, a partire da sinossi e caratterizzazione del protagonista.
Ambientata nella cittadina spagnola di San Sebastián durante il caratteristico e annuale festival internazionale del cinema, la pellicola narra la storia di una coppia statunitense dalla situazione sentimentale traballante. Lui, Mort (un Wallace Shawn perfettamente in parte), è un ex-professore di cinema ebreo insoddisfatto, ipocondriaco e “campionario ambulante di nevrosi” da tempo impegnato nella scrittura del “prossimo grande romanzo”, con risultati praticamente nulli. Lei, Sue (una Gina Gershon abbastanza sacrificata), è invece l’addetta stampa di Philippe (un Louis Garrel molto credibile), un regista francese post-Nouvelle Vague molto più giovane del marito, affascinante, di grande successo e (solo superficialmente) grande cultura. Geloso di quest’ultimo e sospettoso di un possibile tradimento della moglie, Mort decide così di accompagnarla nella città basca, dove Philippe presenterà il suo nuovo film.
Ben presto però, il viaggio si tramuterà in un’opportunità, per il professore (e Woody Allen stesso, di cui Mort rappresenta l’alter ego), di riflettere e ragionare, in un flusso di coscienza di joyciana ispirazione, sulla sua vita e il suo operato, sulla propria identità, sul contesto cinematografico attuale e sul futuro e di venire a capo con i propri demoni interiori e la propria vecchiaia e mortalità. E non solo. La permanenza a San Sebastián infatti sconvolgerà e scardinerà ancor più profondamente il nostro Mort e la sua psicologia, nel momento in cui questi farà la conoscenza di Jo (un’incantevole Elena Anaya), una giovane dottoressa spagnola colta ed attraente che lo stregherà completamente.
Come deducibile da questa breve sinossi (che corrisponde poi, senza deviazioni o sorprese di sorta, all’esile e leggera trama che funge da pretesto e sostiene l’impalcatura filmica tutta), Rifkin’s Festival potrebbe essere facilmente riassunto in sei parole banali quanto indicative della sua essenza e di buona parte del risultato finale: “un classico film di Woody Allen”.
Infatti e forse per la prima volta nella sua ultradecennale carriera, non sono tanto l’intelligenza, l’ingegno e la raffinatezza della sceneggiatura o l’ironia, la perspicacia e il divertimento con cui il cineasta affronta un intreccio suo caratteristico ed una raccolta dei temi tipici della propria filmografia (dalla religione alla sessualità, dal tradimento alla sociopatia, dalla depressione - causa e conseguenza di un’infruttuosa ricerca di risposte ai grandi perché della vita - all’inettitudine più totale, dall’intellettualismo all’intellettualità) a colpire lo spettatore e fare la fortuna del film. A consacrare la pellicola sono piuttosto i modi (in)visibili e delicati con cui Allen trasla su schermo quella stessa sceneggiatura e quelle stesse tematiche e concretizza la sua concezione ideale di Rifkin’s Festival. Vale a dire quella di un racconto autobiografico e confidenziale come (quasi) mai prima d’ora, in cui lo spettatore è chiamato ad aderire attivamente e culturalmente (“Cos’ha da dirmi dopo tutto quello che le ho raccontato?” chiede Mort al suo psicanalista, che saremmo poi noi, poco prima dei titoli di coda).
Il tutto, contestualmente ad un festival (cinefilo e cinematografico) di sogni, visioni, digressioni, follie ed alienazioni, e sullo sfondo di una San Sebastián “da cartolina” registicamente smembrata e ricomposta da Allen e lodevolmente accarezzata dal sodale Vittorio Storaro [qui alla sua quarta collaborazione con il newyorkese] mediante un lavoro fotografico schietto e dai procedimenti manifesti, che gioca con toni (all’occorrenza, caldi e dorati, freddi e mesti) ed aspect ratio.
Come suggerito poco sopra e già desumibile dal titolo della pellicola, Rifkin’s Festival è il racconto di un festival cinematografico, quello di Rifkin appunto, che vede per protagonisti e “programma di sala” gli incubi, le nevrosi, le riflessioni e le fantasticherie del nostro protagonista, che, in qualche modo, assumono la forma e prendono in prestito interi fotogrammi ed inquadrature di alcune delle sequenze più celebri dei suoi film preferiti (che sono poi quelli dello stesso Allen, essendo Mort - ricordiamo - un suo alter ego), sapientemente ricreate dal newyorkese e Storaro in un mix di citazione (formalmente pedissequa) e parodia, ma purtroppo introdotte e sottoposte allo spettatore in maniera meccanica, didascalica e, a lungo andare, ripetitiva.
Ecco quindi che Quarto potere di Orson Welles diventa il racconto dell’infanzia di Mort e del suo amore perduto, 8½ di Federico Fellini lo scherno e la derisione dei suoi tentativi fallimentari come romanziere, Jules e Jim di François Truffaut e Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard la rappresentazione della propria situazione coniugale, Un uomo, una donna di Claude Lelouch il vagheggiamento su un futuro viaggio a Parigi con l’avvenente dottoressa Jo… Fino ad arrivare a Persona e (soprattutto) Il settimo sigillo di Bergman, di cui viene reinterpretata e ricreata la sequenza del primo incontro e dell’inizio della partita a scacchi tra Antonius Block, parafrasato da Mort, e la Morte, a cui presta il volto un Christoph Waltz divertito e divertente che lascia il segno in una versione più tollerante, comprensiva e operaia dell’originale, talora assurgendo quasi al ruolo di vero e proprio life coach, analista e pseudo-nutrizionista di una personalità ed un personaggio ancora più pessimistico e nichilista di lui (Rifkin).
Contenuto, quasi a mo' di scatola cinese, all’interno di un festival (quello di San Sebastián) ben più universale e collettivo, ma così distante e discordante da quello del protagonista e pertanto dal suo mondo interiore (che vede nel grande cinema europeo il tramite, la messinscena e il ritratto del proprio dramma, del proprio inconscio chiaroscurale e della propria verità esistenziale) e dalla sua concezione in merito alla settima arte, il Festival di Rifkin è quindi, in primis, una riflessione personalissima - condotta e resa attraverso gli occhi e l’esistenza alienati ed “alleniati” di Mort - dell’Allen autore e cultore (di cinema) nei riguardi di un panorama e di un’attualità cinematografici che hanno fatto di lui un gigante tristemente capitolato, ora outsider esautorato e in cui egli non riesce più a riconoscersi. Di fronte e al riparo da una realtà dei fatti (per Allen) così annichilente e distruttiva, ecco che il newyorkese individua due ipotetiche “vie di fuga”.
Da un lato abbiamo dunque la critica coerente, provocante e beffarda di un contesto fatto di director’s cut superflue, spettacolarizzazioni travianti, “nel film, tutti i tuoi orgasmi sono merito di effetti speciali?”, roba commerciale che passa per arte e registi ignoranti che si accontentano (e qui ci ricolleghiamo alla frase di Joyce in apertura), parlano per frasi fatte e dirigono pellicole (di fantascienza) che vorrebbero “offrire qualche soluzione per il conflitto arabo-israeliano”.
Dall’altro invece, il rifugiarsi in “sogni di celluloide”, nel grande cinema del passato e dei miti (che Allen omaggia), in quegli istanti e stralci di pellicola che veramente ci appartengono e che possono ospitare e comprendere la nostra interiorità, le nostre gioie e i nostri fallimenti, la nostra inettitudine, il nostro pessimismo, il nostro passato, presente e futuro. Purtroppo, tutto ciò implica, al contempo, un’accettazione di destini inevitabili come vecchiaia e mortalità, a cui però, fortunatamente (e solo grazie al potere indulgente ed indulgente del mezzo cinematografico), possiamo scampare prima dell’arrivo dei titoli di coda.
Woody Allen con il direttore della fotografia Vittorio Storaro
Con Rifkin’s Festival, Woody Allen firma un’opera indubbiamente minore (soprattutto se confrontata anche solo con la precedente Un giorno di pioggia a New York), priva del battito tipico dei suoi racconti e che, a livello prettamente filmico, riserva ben poche sorprese a chi Allen lo conosce bene (situazione contraria avviene e avverrà, probabilmente, per chi invece questa pellicola la vede e vedrà come un qualcosa a sé, slegato da un mosaico ultradecennale di racconti, personaggi ed universi).
Ciò nonostante, se contemplato come tassello ed incastro di un corpus concorde e consonante di opere che hanno fatto la storia del cinema (chi più, chi meno), Rifkin’s Festival si mostra effettivamente come un’ideale, ma inverosimile, chiusura del sipario. La sentita riflessione di un uomo che, dopo 49 film e alla bellezza di 85 anni, percepisce l’inevitabile incedere della parola Fine. Il testamento necessario di un autore diviso tra un passato di gloria, un presente infausto ed un futuro nebuloso, la cui unica certezza è rappresentata, ancora una volta, da uno spassionato amore per la settima arte e per il proprio mestiere di narratore ed umorista. La riprova delle abilità drammaturgiche di un esperto di situazioni e rapporti, da sempre in grado di portare sullo schermo storie piccole (come quella, oltretutto banale, di Mort Rifkin) e, con l’ausilio di strumenti minimi ma efficaci, renderle grandi.
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