TITOLO ORIGINALE: Breakfast at Tiffany's
USCITA ITALIA: 20 Dicembre 1961
USCITA USA: 5 Ottobre 1961
REGIA: Blake Edwards
SCENEGGIATURA: George Axelrod
GENERE: commedia, sentimentale, drammatico
PREMI:
2 PREMI OSCAR per MIGLIOR COLONNA SONORA e MIGLIOR CANZONE
Blake Edwards dirige una Audrey Hepburn e un George Peppard in forma smagliante in questa commedia romantica datata 1961, vincitrice di 2 premi Oscar. Entrata di diritto nell’immaginario comune e nella storia del cinema mondiale, la pellicola ha come maggior pregio quello di aver creato un personaggio, quello di Holly, divenuto e ritenuto ancora oggi una vera e propria icona. Citato, copiato, amato, rispolverato in continuazione, il cult di Edwards continua ad emozionarci; pure a quasi 60 anni dalla sua uscita originale.
“I diamanti prima dei quaranta fanno volgare!“. Alzi la mano chi non ha mai visto o, perlomeno, sentito parlare di Colazione da Tiffany, pellicola datata 1961 che, insieme a Vacanze Romane di William Wyler, ha lanciato Audrey Hepburn nell’Olimpo delle più grandi attrici viventi. Il film, vincitore di ben 2 premi Oscar tra cui quello per la miglior colonna sonora e di un David di Donatello per la miglior attrice straniera, è diventato, fin da subito, un cult assoluto, la cui iconicità e memorabilità sono dovuti in larga parte all’interpretazione con cui la Hepburn caratterizza la giovane Holly Golightly. Sembra quasi scontato ed inutile raccontare, a grandi linee, l’incipit della pellicola – poiché così popolare e sdoganata -, ma potrebbe risultare utile a chi, tra i nostri lettori, non ha mai avuto il piacere di immergersi in quella New York di fine anni 50 – inizio anni 60, insieme a Holly e Fre… Paul. La sopracitata Ms. Golightly è una giovane ragazza molto elegante, raffinata ed affascinante, ma altrettanto sbadata, incauta ed ingenua. La sua vita – così come il suo appartamento, situato in un quartiere altolocato di New York – è fatta di poche cose veramente importanti: il suo gatto (senza nome), i suoi vestiti, i suoi gioielli, l’alcol e le sigarette. Tutto il resto, i mobili e gli oggetti d’arredamento – incluso il telefono -, è di contorno e disposto alla bene e meglio. Tuttavia, la sua vita è fatta anche di schiere di uomini follemente innamorati e totalmente persi per la sua bellezza ed eleganza. In una mattina albeggiante, la ragazza scende da un taxi nell’incrocio con la Quinta Strada, di fronte a Tiffany, uno dei negozi più distinti e rinomati della città. Mentre guarda le vetrine della boutique, questa consuma una rapida colazione, prima di rientrare a casa a piedi. Qualche ora dopo, suona al suo campanello Paul Varjak, il nuovo vicino del piano di sopra. Il giovane e seducente Paul è un promettente autore che, negli ultimi anni, sta soffrendo del famigerato blocco dello scrittore. L’aitante e belloccio Paul viene stregato e coinvolto immediatamente dalla figura di Holly e, con il tempo, i due iniziano a conoscersi sempre meglio.
Ogni giovedì, la bella ragazza fa visita a Sally Tomato, un mafioso newyorkese rinchiuso nella prigione di Sing Sing, che usa Holly come tramite tra sé e il proprio avvocato, con il quale comunica attraverso dei messaggi in codice, che la ragazza interpreta come «bollettini meteorologici» in cambio di 50 dollari a visita. Paul invece, pur avendo pubblicato un libro di successo, intitolato Nove vite, qualche anno prima, per vivere, viene mantenuto da una donna molto più grande di lui che lo paga in cambio di rapporti sessuali. Nonostante questa loro conoscenza, che si tramuta ben presto in qualcosa di più, portando alla luce gli scheletri nei rispettivi armadi, Holly e Paul corrono il rischio di non vedersi mai fidanzati, perché la prima è alla ricerca di un uomo ricco e facoltoso da sposare e, purtroppo, il giovane non vede altri soldi all’infuori di quelli che gli passa la signora Liz. Come andrà a finire tra i due innamorati? Sboccerà la passione o Holly seguirà la propria indole, scegliendo uno dei tanti abbienti, ma ripugnanti, vermi che la corteggiano? Blake Edwards, dopo aver diretto attori del calibro di Tony Curtis e Cary Grant, con George Axelrod alla sceneggiatura, si cimenta nella regia dell’adattamento cinematografico dell’omonimo classico letterario di Truman Capote. Pur facilitato, nella rappresentazione del racconto, da prove attoriali eccezionali ed ispirate, il cineasta costruisce in maniera rigorosa, sopraffina ed elegantissima una vicenda che, per i canoni e stilemi dell’epoca, appariva sicuramente come una ventata d’aria fresca. La protagonista, Holly, è sì il centro su cui verte la narrazione della pellicola, ma non rientra certamente nel modello dell’ammaliante e posata principessa o damigella da soccorrere. Il personaggio della Hepburn si presenta e viene presentato da Edwards infatti in modo veramente atipico ed inedito: trasandata, goffa, scomposta, distratta, sonnecchiante e con la casa in disordine. Anche la figura di Varjak non è proprio il classico e tradizionale principe azzurro, anzi, tutto il contrario. Egli è uno scrittore squattrinato, scapigliato ed estremamente riservato; un vero, ma distinto, disgraziato che, diffidente delle proprie abilità, fa affidamento su una ricca (e sposata) signora della città per arrivare alla fine del mese.
Quindi, già dalla caratterizzazione, sia narrativa che visiva, dei due personaggi si comprende perché Colazione da Tiffany abbia lasciato così tanto il segno nel panorama e nella storia del cinema mondiale. Il tutto è potenziato ulteriormente da una realizzazione fluida, chiara, asciutta e senza fronzoli di piani e movimenti di macchina e da una messa in scena che gode di molteplici escamotage simbolici ed intelligenti, creando situazioni e momenti a dir poco indimenticabili e dando vita così ad un prodotto irresistibile ed estremamente coinvolgente. Tuttavia, ciò che rende veramente eterno e leggendario il lungometraggio di Edwards è proprio la sceneggiatura di Axelrod. Narrando una vicenda che, vista con la mentalità di oggi, può ricordare e risvegliare in noi il ricordo di tempi ormai remoti, ma lo stesso affascinanti e quasi fiabeschi; per gli anni ‘60, sia il romanzo di Capote che la successiva sceneggiatura della pellicola fanno di questo Colazione di Tiffany una pellicola anticipatrice, un inno di libertà e di emancipazione femminile, ancora oggi, estremamente attuale ed efficace. Pur con le sue scontatezze, i suoi elementi prevedibili e i suoi aspetti fin troppo mielosi e sdolcinati, la narrazione di Axelrod riesce ancora a colpire lo spettatore, intrattenendolo gioiosamente e regalandogli due ore di sano divertimento e grandi emozioni. Come intuibile, la forza principale del racconto del film è proprio la caratterizzazione e la rappresentazione filmica che la Hepburn regala della stessa Holly, con i suoi pregi, i suoi difetti, le sue ridicolezze, le sue contraddizioni, la sua incoscienza e la sua ingenuità. E’ possibile infatti notare, fin da subito, che dietro l’apparente felicità e spensieratezza della ragazza si cela un dolore, una sofferenza ed un desiderio identitario e di affermazione personale molto forte, legato però a doppio filo con un’indole indipendente e svincolata da qualsiasi cosa, sia questa un’emozione, un animale o addirittura una persona. Questa volontà di indipendenza porterà la giovane addirittura a dire allo stesso Paul: “Non permetterò a nessuno di mettermi in gabbia“. Tuttavia, questo aspetto della costruzione della protagonista, sempre più sottolineata ed ostentata con il proseguire del racconto, va a cozzare inesorabilmente con il sogno della ragazza di sposarsi con un uomo ricco – e quindi di dipendere da costui. Di conseguenza, in pubblico e nelle occasioni mondane, Holly provvede a vestire i panni dell’affabile, amorevole, ma sprovveduta attrice in cerca di successo e sempre al centro dell’attenzione e delle mire del riccone di turno.
Questa maschera, Holly la toglie soltanto in un paio di occasioni durante il film, mostrandosi realmente per ciò che è. Questi momenti si verificano specialmente quando in scena si trova il personaggio di Paul, con cui la ragazza riesce ad essere veramente ed interamente sé stessa, confessandosi, all’uomo e allo spettatore, con tutte le sue incoerenze, desolazioni e rimpianti. Completamente agli antipodi rispetto alla giovane Holly, il timido ma affascinante autore è invece estremamente dipendente, forse troppo, dalle relazioni e da sentimenti come l’amore – che la ragazza tenta invece di allontanare per esaudire i propri sogni e trovare la propria strada. Parallelamente agli atteggiamenti della distratta ed innocente Ms. Golightly, anche l’alta società newyorchese, le persone che contano, dai nomi altisonanti ed importanti, paiono indossare una maschera fatta di superbia, vanità ed arroganza che, al di sotto, non fa che celare un misto di superficialità, falsità e depravazione. Questa componente di critica e denuncia dei costumi e dei pregiudizi dell’alta borghesia, seppur relegata praticamente ad una sola sequenza – ovvero quella della festa a casa di Holly -, colpisce, prima di tutto, per la sua messa in scena vivace, chiassosa, roboante e rintronante, ma, successivamente, anche e soprattutto per il tipo e l’efficacia della comicità impiegata. Infatti, se il romanticismo del film potrebbe apparire abbastanza scontato, banale, naif e sdoganato per uno spettatore contemporaneo, la comicità funziona e risulta efficace e valida anche a quasi 60 anni di distanza dall’uscita originale. Brillante, acuto, assolutamente geniale, l’umorismo di Colazione da Tiffany si avvale, nella maggior parte di casi, della costruzione di scenette e quadretti comici esilaranti, sopra le righe, paradossali e al limite dell’assurdo. Come non ricordarsi della scena in cui Hoppy dà fuoco accidentalmente al cappello di una signora e, per una serie di coincidenze, questo viene estinto dal drink di un signore a cui viene chiesta l’ora.
In questo marasma di situazioni e personaggi, vi è spazio anche per un po’ di slapstick comedy (comicità fisica), riservata quasi unicamente al personaggio di Yunioshi, vicino e affittuario, di nazionalità giapponese, fotografo brontolone che minaccia costantemente di chiamare la polizia per il troppo rumore provocato da Hoppy & co. Nonostante questo tipo di humour sia estremamente diretto ed universalmente comprensibile, è possibile riscontrare, nel personaggio asiatico interpretato da Mickey Rooney e nella sua rappresentazione forse fin troppo caricaturata, un evidente tocco di razzismo – questo, l’unico elemento che cozza fatalmente con il carattere iconico ed attuale della pellicola. Tuttavia, ad oscurare questioni del genere, facendo risplendere letteralmente lo schermo e rendendo questo Colazione da Tiffany un vero e proprio film di culto amato proprio da tutti; ci pensa lei: Audrey Hepburn, nel ruolo forse più celebre e significativo della sua carriera. L’interpretazione deliziosa, sincera ed assolutamente irresistibile e la rappresentazione del personaggio di Holly – che l’attrice sostiene interamente sulle sue spalle – contribuiscono ad un totale decollo della pellicola, oltre ad essere uno dei motivi principali della sua rinomanza e notorietà mondiale. Citata, ricordata, omaggiata, parodiata e copiata in continuazione, la prova attoriale della Hepburn e il personaggio di cui veste i panni nel film sono, ancora oggi, un’icona pop, celebre e riconosciuta in tutto il mondo che, pur non volendo, è possibile ritrovare ogni giorno su magliette, tazze, borse, ecc… Insieme a Marilyn Monroe, la Hepburn è sicuramente una delle icone di Hollywood più amate e ricordate di tutti i tempi e tutto grazie all’interpretazione di questo film, in cui la diva, con la sua bravura e spontaneità, arriva addirittura ad oscurare le sue co-star, come, per esempio, George Peppard – estremamente sottotono se paragonato alla collega. A completare la rappresentazione filmica del racconto di Hoppy e della sua ricerca di un uomo ricco da sposare, una scenografia splendida ed incantevole – che, in qualche modo, rappresenta e fa da specchio, con la disposizione di mobili o oggetti vari oppure con luci intra-diegetiche, all’interiorità e agli stati d’animo dei protagonisti -, una fotografia curata e calibrata, uno degli elementi di maggior trasporto e suggestione della pellicola, ed una colonna sonora semplicemente magica – vincitrice del premio Oscar -, con la fantastica ed iconica Moon River che apre e chiude la vicenda, continuando a risuonare nella mente dello spettatore anche ore dopo aver concluso la visione.
Seppur forte di un discorso tematico incredibilmente innovativo e rivoluzionario per gli anni ‘60, nel finale, il film non può far altro che adeguarsi ai canoni di qualsiasi racconto romantico tradizionale, conformandosi, di conseguenza, al resto della massa e scegliendo la via sicura ed accomodante del lieto fine; del classico “e vissero per sempre felici e contenti“. Anche se, da un punto di vista della messa in scena, il tipico bacio finale viene ambientato in uno spazio insolito ed estremamente anti-poetico – una viuzza malfamata, piena di rifiuti e scatoloni -, il finale della pellicola non rende fede e non conclude adeguatamente la riflessione sull’indipendenza e libertà portato avanti, durante il corso degli eventi, dal personaggio di Hoppy, tradendo, ancora prima, il finale originario del libro di Capote – drammatico, ma estremamente consapevole e solido. Evans e Axelrod cercano così il consenso del pubblico con il classico happy ending da fiaba disneyiana, risultando, alla fine, leggermente incoerenti con quanto rappresentato e mostrato nelle quasi due ore precedenti. A discapito di qualche scivolone, Colazione da Tiffany rimane indubbiamente una delle commedie romantiche più importanti e riuscite della storia del cinema, da cui dovrebbero prendere spunto la maggior parte degli esempi moderni del genere. Un instant cult che emoziona e colpisce ancora oggi, suscitando risate e, perché no, strappando anche qualche lacrima. Una cosa è certa però: nessun altro personaggio di finzione lascerà mai un’impronta così grande nell’immaginario collettivo così come fece, continua e continuerà a fare la Holly Golightly di Audrey Hepburn.